Napul’è mille culure
Napul’è mille paurePino Daniele, Napul’è
Forse le parole seguenti potranno suonare retoriche o pesanti ma chiederei ai lettori di prenderle come si dovrebbero prendere, almeno secondo il sottoscritto, i film di Sorrentino, ovvero come i baci Perugina: le frasi nella confezione potrebbero non avere l’impatto sperato, ma è per il cioccolatino che vale la pena scartarla.
Si potrebbero dire moltissime cose su È stata la mano di Dio ma dopo tanto rifletterci è forse meglio provare a mantenersi sul vago, sull’astratto, sull’emotivo, come fa il suo autore. È anche difficile provare a parlare di cinema come se ci fossero dei punti di riferimento chiari; ché tanto è facile tirar fuori Fellini con la sua fallocrazia dell’onirismo autobiografico o pensare a cos’è stata la filmografia di Sorrentino sinora. Però come punto di partenza può avere senso provare a farlo. In ogni suo film, l’autore partenopeo attua una ricerca pienissima all’interno del vuoto. Per essere onesto, essendo difficile nella contemporaneità esserlo nella realtà, cerca di usare il mezzo disonesto del cinema, che lui declina in modo plastico, trasformando le sue visioni poetiche e infattuali della realtà in scenografiche ed esplosive menzogne, che ciononostante cercano di rivelare qualcosa di reale – mette sempre in discussione quest’onestà, e con essa la sua visione del mondo e la fragilità del misterioso ego umano. Sorrentino non tornava a Napoli dall’esordio del 2001, L’uomo in più, per certi versi un insuperato capolavoro nella sua carriera. Lì divideva in due l’identità del nome Tony Pisapia, primo (e secondo) nella sfilza degli uomini soli sorrentiniani, tutti alla ricerca di un riscatto o di un cambiamento, in un’esistenza che ha dello straordinario ma che è piena di vuoto. Una filmografia sul vuoto, ma che ciononstante cerca la grandezza, l’enormità, la speranza, la Fede, appunto, nel vuoto, che ci circonda. E per molti, evidentemente, la trova. Sono film annoiati, crudeli, su persone che provano tanto amore ma che compiono azioni atroci. Sono film eccessivi, eccentrici, solipsistici che tentano comunque di essere universali, di sfiorare il sole. La grande bellezza cerca di rendere sublime la noia come Youth cerca l’etereo nell’inevitabilità della mortalità, così come Il divo e Loro sono satire tragiche che umanizzano le figure del potere con scene frammentate più o meno astratte che descrivono le personalità e le immagini pubbliche di Andreotti e Berlusconi a 360°. È difficile proprio parlare di Sorrentino usando termini materici, perché, se si scende ai puri fatti e guardiamo il tutto sotto la lente superficiale dell’individuazione di ciò che c’è sullo schermo, troviamo uno stile massimalista colmo di spudoratezze pacchiane e delle sceneggiature tortuose. Tra perdonarle e giustificarle e far finta che non esistano, chi scrive sceglie di tentare una vox media di onestà (?) e dire che la retorica del regista premio Oscar non mi ha mai pesato e mi ha sempre trascinato in una trance di immedesimazione.
È stata la mano di Dio è una pseudo-autobiografia, in cui il regista crea per sé l’alterego dell’adolescente Fabietto che vive Napoli in un periodo di fine anni ’80/inizio anni ’90 gremito di falsi storici. Tra un’immagine e l’altra sono sparsi indizi che esplicitano, se prendiamo il tutto sul serio come se fosse una verità, la provenienza intima di simbolismi in alcune delle sue sequenze più iconiche (il finale di This must be the place, la giocoleria con le arance di The Young Pope, anche gli scherzi tra vicini del romanzo Tony Pagoda e i suoi amici). È “spiegata” la provenienza culturale della sua passione per Maradona, è approfondito il suo rapporto col regista Antonio Capuano che l’ha pressoché istigato a buttarsi nel cinema, ed è raccontata, centralmente, la famiglia del protagonista, non la famiglia Sorrentino, ma la fittizia famiglia Schisa (il padre di Fabio è Servillo nel suo ruolo sorrentiniano più calibrato e meno estroso), in cui ci si vuole bene ma ci si dice brutalità, ci si picchia, ci si minaccia, ci si attrae incestuosamente, si fanno scherzi brutali che rovinano totalmente i rapporti. Sarà Napoli, che rende le persone più cattive che simpatiche – o forse sono proprio loro a essere così. Persone straordinariamente oneste fino a far male a sé e agli altri, oneste nell’esibizione giullaresca della crudeltà di cui sono capaci. Il loro comportamento non si adatta alle norme della buona creanza. Ma nell’orrore di un atteggiamento umano sconsiderato, c’è la possibilità di creare l’immagine dell’amore che traina con sé questa famiglia, il legame inspiegabile tra queste persone così sperdute, variegate, cattive e buone in modo umano. C’è della tenerezza nel loro modo di esprimere anche le emozioni più negative. A partire dalla sua natura aneddotica, che ricorda La grande bellezza più di qualsiasi altro film di Sorrentino, È stata la mano di Dio evoca un affresco di dettagli, allegorici punti chiave della formazione di un artista immaginario, un Fabietto che diventa passo dopo passo sempre più vivo, più diverso di Paolo. Diventa sempre più Fabio, finché i punti di comune con Paolo non sono come rumore bianco in sottofondo. Quello che fa Fabio è credere in quelle che sembrano palesi menzogne: come, per esempio, che sua zia non abbia incontrato San Gennaro ma un cliente con cui si è prostituita, o che sia stata la mano di Dio a salvarlo dal tragico incidente che ha preso le vite dei suoi genitori. È stata la mano di Dio è l’educazione sentimentale di un ragazzo che diventa uomo, che intravede «il futuro» venendo sverginato in modo squallido, che comunica con la sorella sussurrandosi attraverso la porta del bagno, che vuole fare film pur avendone visti solo 3 o 4 solamente perché vuole vedere qualcosa che non gli è stato permesso di vedere. Non c’è più il vuoto cosmico del finale di Loro, bensì il pieno del compimento di una ricerca dannatamente concreta in questo vuoto.
La struttura del film è disomogenea e per ciò i momenti più verbosi e quelli dal simbolismo più greve fanno grattare il capo a molti. È parte integrante di un percorso personale, letterario, un’interiorità che assume connotati iconici, trascendentali, emotivi in modo più poetico che narrativo, più intangibile che materiale o sociale – e quindi per sua natura un gesto artistico narcisista che potrebbe essere controverso. Ma è, anch’esso, con la sua impalcatura disonesta, molto onesto. Avrebbe senso forse cercare di capire il film in modo analitico, scena per scena, anche perché nella struttura è una delle operazioni più perfette e prive di sbavature del regista, forse quella meno incostante della sua carriera insieme proprio a L’uomo in più, con cui condivide l’ambientazione eterna – ma al festival è risultato impossibile vederlo più di una volta e ci è arduo approssimare un discorso completo per ora. Viaggiando e volando sulla capoluogo campana, Sorrentino riempie di automobili piazza del Plebiscito, fa guidare il suo Fabio senza casco, prende il mito del Maradona nel Napoli per metterlo in scena con più declinazioni, da mera contestualizzazione storica a miracolo del quotidiano, da ordinaria amministrazione nella vita comune a sottofondo per un pianto grottesco. È stata la mano di Dio, pur prendendo dalla realtà, è un sogno di maniera, un manifesto sfacciatamente fasullo. Il sogno di Sorrentino, forse – quello originario. La macchina da presa non esagera, la colonna sonora è pressoché inesistente, il regista tra una cattiveria e l’altra prende possesso della città, di Fabio, della sua famiglia, li esorcizza e li rivaluta, li ricostruisce e li spreme. Mette in discussione i canoni della virilità inacidendo le implicazioni della sessualità, mischia il cinema di Fellini a quello di Capuano immaginando film del primo (che non esistono) e rimettendo in scena film del secondo (che non esistono). I connotati sono quelli di un miraggio nostalgico che poco ha a che vedere con lo stato odierno dell’estetica del cinema italiano, e la fotografia di Daria D’Antonio sostituisce egregiamente il solito approccio enfatico di Bigazzi senza dare l’idea che qualcosa sia stato cambiato dalla distribuzione Netflix (i cui prodotti tendono ad avere un impianto visivo spesso troppo simile a se stesso anche in serie e film completamente diversi tra loro per contenuto e intento). Le soluzioni nel montaggio e nella consecutio temporum che lega ogni scena alla seguente, in un modo che a volte sembra scelto da un generatore casuale, dà una fluidità romantica e a modo suo unica alla prosa della trama, lasciando intravedere un mondo gigantesco che non ci sta venendo raccontato, un ideale che ci è invisibile ma che c’è, dando anche allo spettatore (quello che sta al gioco) il desiderio di guardare qualcosa che non è concesso al suo sguardo, qualcosa in più. Una Napoli che non vivremo mai, una vita che dopo la visione, anche se in modo parziale, è anche nostra. Forse quello che Sorrentino ci sta urlando è che vorrebbe abbracciare tutti i suoi spettatori come Lenny Belardo di Young e New Pope vuole abbracciare tutti i suoi fedeli, vuole che ognuno possa portarsi a casa qualcosa – magari la Fede.
Fabio si mette sempre le cuffie, ma non si sente praticamente mai che cosa ascolta. Non è stato Paolo Sorrentino a voler immaginare e iscrivere in dialettica artistica lo specifico, sentimentale desiderio di capire come ascoltare, come vedere, come volere bene. È stata la mano di Dio.
Nicola Settis