Anche questa volta, a ben vedere, già tutto nella pasta dell’immagine. Non più il nastro magnetico Betamax che rievocava in No! l’estetica televisiva a bassissima definizione del regime di Pinochet, non più le spiazzanti sovraesposizioni digitali di El Club e Neruda, non più il 35mm necessariamente “spettacolare” di Jackie, e nemmeno più il 4K iper-pop dei videoclip reggaeton scelto per quella prima e unica bruciante delusione che fu l’ormai penultimo Ema. Nel suo sempre coerente adattare le scelte estetiche al contesto e al senso del film, e soprattutto nel tanto auspicato ritornare nella carreggiata del suo cinema dopo l’esperimento non riuscito di due anni fa, tanto diverso e sbagliato da aver fatto temere che lo scarto nelle premesse linguistiche verso forme così evidentemente lontane dalle sue corde più sincere potesse essere solo il preludio di un definitivo perdersi, Pablo Larraín non poteva che decidere di girare Spencer in super16mm. Quel passo ridotto che, una volta desaturato e pastellato quanto basta, si finge lo standard in 35 proprio come la famiglia reale britannica, e più in generale quel potere sistemico che da sempre l’autore cileno viviseziona e mette in scena in tutte le sue derive e contraddizioni, vive in quel rigido protocollo secondo i cui dettami apertamente fingere sempre in pubblico ciò che il popolo vuole vedere e che i fotografi vogliono immortalare. Un potere ancora una volta oppressivo contro il singolo, che come già quello di Pinochet, della chiesa, dei media e del desiderio sessuale schiaccia e logora tanto chi non lo possiede quanto chi lo esercita, per un film che è abbastanza evidentemente meno ispirato e brillante di buona parte dei suoi illustri predecessori, ma capace di quel necessario passo indietro che forse era l’unico modo per scacciare i fantasmi di Ema.
Tanto che è idealmente con l’ancora precedente Jackie, che Spencer si mette sin da subito in aperto dialogo. Non a caso l’unico altro film internazionale, nato esattamente come questo da una sceneggiatura già pronta (di Noah Oppenheim cinque anni fa, di Stephen Knight già regista di Locke questa volta) e più o meno radicalmente trasformata da Larraín con modifiche, aggiunte, dettagli e soprattutto radicali scelte di messa in scena, su due donne così simili per scelte, per dolore e per furbizia, tanto ricche, amate e potenti quanto intimamente infelici, entrambe assurte a icona seguendo percorsi opposti eppure in fin dei conti identici. Nel 2016 fu Natalie Portman a dare corpo a Jackie Kennedy nei quattro giorni fra la morte e il funerale del marito Presidente, mentre qui è una grande Kristen Stewart a riportare in vita Lady D. e il suo portamento fra la Vigilia di Natale e la nota sortita con William e Harry al fast food che tanto diede scandalo a Santo Stefano 1991. La prima freschissima vedova addolorata nelle gocce di sangue, eppure al contempo ben lucida, politica, mediatica e un (bel) po’ ipocrita nel riuscire creare finzione e spettacolarità sul funerale del marito John Fitzgerald Kennedy, nascondendone gli scheletri nell’armadio e creandone definitivamente l’immagine pubblica di giusto ed eterno martire, mentre l’altra esattamente al contrario non riesce più a sopportare le finzioni in ogni occasione pubblica, il non poter vivere come una persona normale, le imposizioni da rispettare davanti e dietro le tende, il sentirsi come «un insetto osservato al microscopio», e vorrebbe che persino i fotografi sempre appostati potessero almeno per una volta, almeno per un momento, guardare e immortalare la vera realtà degli esseri umani magari fragili che stanno dietro alle figure simboliche che sono chiamati a incarnare. Una sorta di dialogo in controcampo, immaginato attraverso le impenetrabili pareti della Casa Bianca e di Sandringham, fra due personaggi che sono in realtà ben più paralleli di quanto lo riesca a essere quello prima suggerito e poi urlato sullo schermo fra Diana Spencer e Anna Bolena, e che si specchiano uguali e opposti nei due film di Larraín proprio come specchiato nel vetro dell’auto che portava via la vedova Kennedy e futura miliardaria signora Onassis c’era quel manichino con lo stesso identico vestito rosa di Jackie, mentre qui, durante la fuga da palazzo di Diana, toccherà a uno spaventapasseri di campagna l’onore di ritrovarsi vestito dell’abito giallo della (non più) principessa e, seppure per poco, altrettanto futura miliardaria Al-Fayed.
«Qui c’è un solo tempo. Il futuro non esiste, e passato e presente sono la stessa cosa», dirà una sempre più insofferente Diana ai figli William e Harry. Tre giorni, dalla (per nulla) «divertente» cerimonia di pesatura sulla bilancia alla tradizionale battuta di caccia al fagiano, da passare in una casa «in cui si sente tutto, anche i pensieri», sopportando che il rispetto assoluto della tradizione preveda di non accendere il riscaldamento e che ogni dettaglio sia organizzato come se fosse già successo, con gli abiti imposti per ogni singolo pasto da abbinarsi a quella collana di perle che Carlo, forse senza nemmeno accorgersene, aveva regalato identica anche a Camilla Parker-Bowles. Eppure, nel non-tempo del Royal Protocol, emerge un tempo ben definito, nel quale il matrimonio fra Carlo e Diana era ormai agli ultimi sgoccioli e nel quale Larraín immagina un ritratto di famiglia – reale e sfasciata – in un interno fra la perfetta coordinazione dei camerieri e la pesantezza aristocratica degli arredi, fra i maestri di palazzo che tengono lontana la stampa e la servitù che si assicura che tutto sia assolutamente perfetto. Un tempo in cui, a una collina di distanza dalla sua casa natale ormai in rovina, riemerge il passato di Diana, i suoi ricordi da Spencer, e al contempo riemergono i fantasmi del passato di quella famiglia reale che ha più volte tagliato teste ma che nonostante tutto non ha mai smesso di essere il volto sulle banconote. Per «una fiaba che nasce da una tragedia reale», come dichiarato sin dal primissimo cartello, dove la tragedia non è (ancora) in quel tunnel parigino che pochi anni dopo sancirà la prematura morte di Diana, ma sta nell’ipocrisia del mondo, nell’oppressione a ogni livello, nella mancanza di libertà, e non certo in ultimo nella troppa importanza che da fuori viene data a figure privilegiatissime e puramente di rappresentanza. Certo, le vere “tragedie” quotidiane sono altre. Non il semplice rinunciare alla famiglia reale ritrovandosi comunque ricchi, amati e potenti al volante della propria Porsche decappottabile, su tutt’altra galassia rispetto a chi non riesce a mettere un piatto in tavola. Ma è per questo che, come del resto già in tutte le ambiguità di Jackie, Larraín si tiene ben lontano dall’agiografia di Lady D., mettendo in scena la principessa triste senza negare in alcun modo la sua natura egocentrica e capricciosa, le sue contraddizioni, il suo carattere difficile, le sue origini già ultraborghesi e i suoi comportamenti ingenui e a volte incomprensibili fra pasti saltati e sortite compulsive nella dispensa. Tanto che non è certo un caso il parallelo con i «poco intelligenti» fagiani che Diana vorrebbe salvare, e che invece sin dall’arrivo dei reali nella residenza invernale quasi vengono schiacciati dalle ruote delle auto lungo il viale d’accesso.
Basterebbe in questo senso la sequenza magistralmente messa in scena ai due lati del biliardo, mentre la macchina da presa carrella lentissima verso Diana e verso Carlo, che ammettendo per l’ennesima volta la sua relazione adulterina quasi si stupisce di come la moglie non abbia capito, a differenza del figlioletto William ben conscio di non avere scelta sul futuro che lo vedrà come prossimo sovrano di Gran Bretagna, il senso della vita dei reali, il loro doversi mostrare diversi dal popolo, la loro netta distinzione fra la sfera pubblica e la sfera privata, il fatto che le regole esistano per motivi secolari molto più importanti della voglia di libertà del singolo membro della famiglia. È per il bene del Paese che William deve necessariamente imbracciare il fucile e sparare nella battuta di caccia, ed è per lo stesso motivo che Diana deve prepararsi secondo lo stretto regolamento per la cena quando ancora mancano più tre ore. Magari dietro alle tende cucite perché non le possa più riaprire, servita da una cameriera rude e sbrigativa dopo l’allontanamento della sua unica amica. Ma se la sceneggiatura firmata da Knight, non priva di semplificazioni, punti deboli e pennellate kitsch che pur lambendo simili territori la mantengono ben lontana dalla profondità e lungimiranza agghiacciante delle vette raggiunte in passato da Larraín, può lasciare spazio a qualche perplessità e di certo non concentra i maggiori spunti di interesse del film, sono proprio la regia personalissima e lo sguardo trasversalmente autobiografico dell’autore cileno che con Spencer portano in concorso a Venezia78 una vera e propria, anche letteralmente, danza nel tempo e nello spazio. Una danza necessariamente macabra, orrorifica e persecutoria come un personale Shining, che si muove fra i traumi e le ossessioni dei suoi ectoplasmi alla ricerca di identità. Fra la casa paterna d’infanzia e la tenuta di campagna della Corona, fra la Storia che si ripete e un quotidiano asfissiante in cui l’unico modo perché i figli possano aprire un regalo di Natale «come le persone normali», e non nel tradizionale pomeriggio della vigilia dei reali britannici, è prendere l’auto di nascosto e sfuggire alla scorta. Prima di rinchiudersi nell’oro di una sostanziale prigione, dove tutti osservano e origliano perché dal di fuori nessuno possa osservare né origliare. Eppure bastano un paio di giochi di sguardi, per dire tutto senza che venga pronunciata una sola parola. Prima una sorta di stallo alla messicana senza armi, in cui Diana, Carlo e la regina Elisabetta si ritrovano a tavola fra il reale e l’onirico, e poi il reciproco fulminarsi di Diana e Camilla fuori dalla chiesa al termine della messa. Anche se mentre parla con i figli Diana non riesce nemmeno a pronunciarlo, il nome della storica rivale in amore. La chiama Jane Seymour, come l’amante di Enrico VIII e nuova moglie dopo l’esecuzione dell’innocente Anna Bolena, in quel paragone che tornerà insistito e ossessivo fino al fantasma, all’allucinazione, all’autolesionismo e al crollo psicologico. Dal sogno da bambina di entrare a corte fino al bisogno assoluto di uscirne, di poter indossare un paio di jeans, di poter guidare senza scorta per i bar di campagna, di poter mangiare schifezze vicino a Tower Bridge. Di poter immaginare di nuovo un futuro, di nuovo amata, di nuovo in grado di amare. Un futuro in cui, paradossalmente, ancora una volta tutti tranne lei sappiamo già come andrà a finire, non più la fiaba ma solo la tragedia. Fuori campo, però. E va bene così.
Marco Romagna