2 Settembre 2021 -

THE POWER OF THE DOG (2021)
di Jane Campion

«Libera la mia vita dalla spada,
e salva l’unica vita mia dall’assalto del cane»
Salmo 22, 20

Certo, è evidente il ben preciso processo di demitizzazione del western che si compie lungo la traiettoria della doppia parabola melò di The power of the dog, come pure è manifesta la sistematica distruzione della mascolinità machista e omofoba dei mandriani proprio dall’interno di quel mondo che, forse più di qualsiasi altra contestualizzazione culturale, semplicemente la imponeva. Ma non sono questi – se non altro in quanto percorsi già battuti sottotraccia un paio d’anni fa dalla collega Kelly Reichardt con il suo ben più riuscito First cow e, per molti versi, ancora prima e al contrario molto più audacemente dall’Ang Lee di Brokeback Mountain – i principali spunti di interesse del nuovo e, tanto vale dirlo subito, in realtà non particolarmente esaltante lavoro di Jane Campion, presentato in concorso alla 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia subito prima di volare anche a Telluride, Toronto e New York e già pronto per il catalogo di Netflix. Semmai, a tentare di innervare l’epica per immagini e l'(etero/omo)erotismo di dettagli e primi piani della regista neozelandese ci sono le conseguenze sempre più estreme dei continui scontri fra opposti, messi in scena sia nell’antitesi fra i fratelli che gestiscono il ranch sia nei conflitti interiori che emergeranno dal profondo della loro intimità. Contrapposizioni fra chi è ancora rimasto a cavalcare (e magari reprimere, tanto gli altri quanto se stesso) nella realtà polverosa e rurale dell’Ottocento, e chi invece sta iniziando a fare parte di un mondo che, nel Montana degli anni Venti, stava radicalmente cambiando nell’avanzare repentino del secolo breve fra i vestiti eleganti, l’igiene personale, le città in costruzione e la modernità delle automobili. Una collisione di realtà differenti, dalle cui ripercussioni emotive non potrà che emergere un (anti)eroe dicotomico e glaciale, sensibile oltre le lacrime nella sua omosessualità di fiori di carta e al contempo abbastanza anaffettivo per spezzare il collo a un coniglio mentre lo sta accarezzando, morbosamente attaccato a quella madre alcoolizzata da difendere a ogni costo e al contempo serafico e inquietante dietro a una finestra mentre osserva il passaggio di un corteo funebre. Un potenziale dottore o forse un potenziale serial killer, plasmato in qualche modo da quella stessa società che già aveva portato all’alcolismo i suoi genitori costringendolo a incassare senza alcuna protezione le sue contraddizioni.

Urge però a questo punto fare un passo indietro, e ripartire per ordine. Gira idealmente attorno a quattro personaggi e a due fantasmi, il congegno narrativo di The power of the dog. Da una parte i proprietari del ranch George e Phil, tanto gentile, galante e impacciato il primo quanto grezzo, aggressivo e prepotente il secondo; dall’altra la vedova Rose con il suo efebico figlio Peter, futura sposa di George costantemente vessata e umiliata da Phil fino a quando il duro non sarà costretto a rivelare le proprie fragilità in un’inaspettata e segretissima tensione (omo)erotica; e dall’altra ancora gli spettri di chi non c’è più, il padre alcolista e suicida dal quale Peter per sempre si sentirà abbandonato e il mentore (e forse anche qualcosa di più) di Phil, quel Bronco Henry primo fra tutti in grado di scorgere il cane d’ombra nascosto fra le forme tondeggianti della collina. Dove Thomas Savage, nell’omonimo romanzo del ’67, non risparmiava dettagli né sulla relazione né sull’omicidio per vendetta del mandriano da parte dell’aspirante medico, Jane Campion preferisce al contrario suggerire, fare in modo che a svelare sia una rivista illustrata, che a ribaltare i rapporti di forza possa essere un solo sguardo indiscreto nel fiume, e che a raccontare davvero siano una corda e una mano guantata, o ancora le “lezioni di banjo” di Phil che, in quella che forse è la sequenza più riuscita, dal piano di sopra del ranch volontariamente disturba con il suo strumento a corda l’esercizio di Rose al pianoforte. Momenti di un cinema a tratti anche prezioso, che si innestano nel sempre indiscutibile e anzi strabiliante talento visivo, registico e poetico dell’autrice neozelandese. Però questa volta non basta il pianoforte, per tornare a Lezioni di piano. Nonostante anche in The power of the dog, in un’evidente autocitazione, lo strumento arrivi e venga sistemato nel salone principale del ranch fra le braccia di un’intera orda di trasportatori, in attesa che Rose non riesca a suonare per il governatore e che Phil, per l’ennesima volta, accorra a umiliarla.

Non bastano la pur ottima fattura e il grande senso dell’epica dei (pochi) paesaggi mozzafiato e dei (molti) dettagli lirici, per giunta parzialmente depotenziata da una pasta fotografica ormai standard che non tenta nemmeno di nascondere come l’obiettivo produttivo sia lo streaming sul piccolo schermo, per sopperire alla recitazione non all’altezza di una Kirsten Dunst che al contrario del buonissimo Cumberbatch pare come svuotata dal lockdown neozelandese che ha spezzato in due tronconi le riprese, o ai tanti strappi nella sceneggiatura (il cambio troppo improvviso nel rapporto fra Phil e Peter, per esempio, o gli sfoghi di rabbia del primo sul cavallo preferito), o alle aperte cadute nel kitsch (Peter che cammina particolarmente femmineo fra gli insulti omofobi dei mandriani), o ancora alla troppa schematicità di molti fra i rapporti umani (le forzature con cui George conquista Rose, o ancora il fatto che sparisca o quasi dal film appena esaurita la sua funzione narrativa di far entrare madre e figlio nel ranch, mentre lei barcolla nel whiskey e Peter viviseziona animali). È per questo, in definitiva, che The power of the dog finisce per deludere le aspettative. Non un film ‘brutto’, anzi, sarebbe profondamente ingeneroso e in realtà anche sbagliato definirlo tale. Ma un film che si appiattisce sugli standard visivi, narrativi e politici della piattaforma che lo ha prodotto, di fatto programmatico, freddo e anaffettivo come quel suo co-protagonista adolescente che quasi pare la genesi di Norman Bates, e forse in definitiva senza troppo da dire. Certo, rimangono le gocce di sangue sui fiori, rimane il deflagrare improvviso dei campi lunghi, rimane l’intensità anche erotica dei primi piani, e rimane pure la fotografia nitida e lucida di un mondo in forse troppo rapida evoluzione, nel quale anche la follia nient’altro è che una forma di (auto)difesa. Nemmeno pochissimo, se fosse stato un giovane regista esordiente a metterlo in scena. Ma non ci si aspettava che in un film di Jane Campion, ancor di più nel ritorno al cinema di Jane Campion dopo ben dodici anni, mancasse l’emozione e fosse poca la sostanza. E inevitabilmente ci si rimane male.

Marco Romagna

“The Power of the Dog” (2021)
125 min | Drama, Romance, Western | United Kingdom / Australia / United States / Canada / New Zealand
Regista Jane Campion
Sceneggiatori Jane Campion, Thomas Savage
Attori principali Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons
IMDb Rating N/A

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