«No hay historia muda. Por mucho que la quemen, por mucho que la rompan, por mucho que la mientan, la historia humana se niega a callarse la boca.»
«Non esiste una Storia muta. Per quanto la brucino, per quanto la rompano, per quanto mentano a riguardo, la Storia umana si rifiuta di stare zitta»[Eduardo Galeano, citazione in coda al film]
Il nome di Pedro Almodóvar è sinonimo da fine anni ’70 di una tipologia cinematografica i cui temi e stilemi sono sempre, in qualche modo, ripetitivi, e quindi, negli occhi dello spettatore che assiduamente ritorna a scoprire cos’ha di nuovo da dire l’autore, rassicurante. La reiterazione di film emotivamente ed esteticamente analoghi è una dote di una categoria di registi che è difficile da definire con semplicità in un aggettivo; sono artisti scrittori, riempiono un abbozzo su carta di una delineazione narrativa di riflessioni, spunti e appunti raccolti negli anni in modo metodico, così da poter sempre tornare su un binario di esperienze simili ma opere diverse, arricchendo un percorso stratificato che con gli anni si evolve o comunque muta, in base alla crescita nel tempo del mondo e dell’occhio che lo osserva. Ingmar Bergman e Woody Allen sono così, penne selvagge, ma sempre riconoscibili, che sondano la realtà con la medesima lente d’ingrandimento, come alla ricerca sempre della stessa cosa in posti diversi, o di modi diversi di raccontare la stessa cosa. Così, anche la sensibilità queer di Almodóvar, la sua vitalità nella delineazione e nella direzione dei personaggi femminili, il colorito eccentrico dei suoi spazi interni, il soffice didascalismo con cui la sua macchina da presa descrive le micro-relazioni (melo)drammatiche del quotidiano con una cura per il dettaglio e per l’oggetto hitchcockiana lo rende assolutamente partecipe a questa modalità autoriale. Il passaggio al digitale, avvenuto in modo definitivo a partire da Gli amanti passeggeri (2013), la sua ‘screwball comedy’ dall’erotismo goliardico, ha portato con sé un’inevitabile trasfigurazione dell’estetica e del peso specifico dei film di Almodóvar, che tuttavia non ha compromesso la ‘missione’ del suo percorso.
E se vediamo Dolor y gloria (2019) come il suo film-confessionale autobiografico, figlio di una serie di bisogni esplicitamente personali del regista come quello di esorcizzare la propria ipocondria o quello di tornare a immergersi nel passato per ricordarsi perché fa cinema, e il mediometraggio La voce umana (2020) come una messa in scena contemporanea e metacinematografica di un monologo di Cocteau che lo ossessionava almeno dal 1987 di La legge del desiderio (ove esso era già stato citato), allora Madres Paralelas, film d’apertura in concorso alla 78esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è, come Julieta (2016), un solido melodramma. Un insieme di idee narrative che a volte non sembrano neanche andare d’accordo tra loro, ma che insieme costruiscono un affresco drammatico che dà un senso, uno scopo, una costruzione alle vite delle sue protagoniste. A questo giro, sono Penelope Cruz e la quasi esordiente Milena Smit le eroine del regista, portavoci della naturalezza con cui la vita continua e le ferite si rimarginano anche di fronte ai fantasmi del passato e alla complicatezza della natura umana. Ad accomunare Janis (Cruz) e Ana (Smit) sono il tempo di gravidanza e la stanza d’ospedale in cui sono tenute ad aspettare che le loro rispettive figlie escano dall’osservazione. La prima, fotografa di mezza età, porta in grembo il figlio di un archeologo sposato conosciuto per lavoro e ha deciso di crescerlo da sola; la seconda, minorenne dalla storia famigliare travagliata, è rimasta incinta in una drastica e traumatica serata a base di alcol e pasticche in cui ha copulato, non consenziente, con tre amici, di cui non sa chi è il padre. Esperienze di vita e maternità diverse, per due percorsi destinati a incrociarsi. A differenza che nella tradizione del mélo, le vite delle protagoniste non sono trascinate da amori impossibili ma da desideri individuali, da una necessità d’indipendenza nella giungla della vita adulta, che nessuna delle due ancora capisce pienamente nonostante l’ingente differenza d’età. Se qualcosa contraddistingue il rapporto con la vita dell’una da quello dell’altra, è il modo di vedere il passato. Janis, che si chiama così per Janis Joplin, e vuole trovare una sepoltura degna al suo bisnonno e ai suoi compagni, concittadini storici del suo paesino, caduti in guerra, mentre Ana vuole dimenticare il passato, lasciare alle spalle il padre inetto, la madre attrice e lo stupro subìto, e diventare pienamente la se stessa adulta e definita, anche in faccia alle tragedie che vive, e non capisce l’ossessione dell’altra. Un rapporto di complicità silenziosa diventa amicizia, e poi amore, ma sempre con un non-detto, un segreto drammatico che tira avanti la storia, escamotage tipico della “soap opera a regola d’arte” a cui Almodóvar si avvicina periodicamente alternando la parodia (Donne sull’orlo di una crisi di nervi, 1988) al tributo pseudo-tragico (Tacchi a spillo, 1991, o Il fiore del mio segreto, 1995) dai primi fasti della sua carriera da commediografo internazionale sui generis per il grande schermo.
Meccanismo cinefilo d’imprevisti, di genere ma senza generi definiti (può diventare un thriller come una ghost-story bellica, ma rimane sempre sulla falsariga del dramma leggero), Madres Paralelas ha un po’ di tutto, da tributi a Raffaella Carrà a viavai nel tempo e nello spazio, da riflessioni sulla memoria a magliette femministe. Come Julieta, è aperto e irrisolto, e in quanto tale, per quanto non abbia nulla di reale (a causa perlopiù di dissolvenze al nero che frammentano la linearità delle cose ed ellissi temporali che negano il patto silenzioso tra la sceneggiatura e il pubblico), sa di reale. Ha un punto di partenza analogo a Alle soglie della vita (1958) di Bergman ma, invece di rimanere a raccontare la maternità, Almodóvar lo confronta coi ritmi dei “colpi di scena” che la vita “vera” riserva alle donne (e agli uomini), e alla morte; la nascita è, quindi, più che simbolo di un’ipotetica speranza retorica per il futuro, semplicemente un evento, materiale per quanto vivifico, che fa parte dello scorrere fluviale del tempo, come anche la morte. Sono entrambi momenti memorabili, straordinari, dell’esistenza. Ma, per gli altri, i vivi, “noi”, non sono che cose che succedono altrove, “agli altri”. Secondo questa modalità materica di vedere il vivere, le cose scorrono di fronte alla macchina da presa in modo falsamente anempatico. Una relazione saffica che potrebbe fungere da pretesto per raccontare sotto una luce diversa i personaggi è (giustamente) relegata a una cosa che accade nel sottofondo ai sentimenti, reale forza trascinante dietro i fatti che legano le protagoniste: nella mera scelta di cosa rendere il centro dell’a(tten)zione e come dare una costruzione drammaturgica ai punti cardine che trasformano la scena (e il film) mentre la (o lo) si guarda, il regista trasmuta un racconto dall’aura di dramma famigliare in una fluida, leggiadra fiaba, che tiene gli spettatori tesi e coinvolti senza mai ricattare la loro reazione emotiva. Il finale è straordinario: riporta la realtà filmata nell’area onirica e metafisica a cui appartiene, quella del film muto dentro Parla con lei, quella delle scenografie astratte di La pelle che abito, quella delle fantasie erotiche de La legge del desiderio. È un film di tensione in divenire, in cui tutto potrebbe succedere, e poi non solo non succede, ma quel poco che succede è un anti-climax, e porta solo all’ennesimo, il più esplicito e tragico, confronto tra la vita e la morte, tra il futuro e il passato, tra quello che verrà e quello che si è già smarrito. Quello che abbiamo è l’esperienza fugace che c’è nel mezzo, amori espressi da un amore impressionista di tende che svolazzano al vento, o da un bacio con poca convinzione ma in cui l’affetto rimane reale. Quello di Almodóvar è cinema da vivere, non da razionalizzare – come la Storia, forse, che non rimane zitta, perché gli esseri umani ci sono. Finché non ci sono più.
Nicola Settis