«Soldati! Non consegnatevi a questi bruti che vi disprezzano, che vi riducono in schiavitù, che irreggimentano la vostra vita, vi dicono quello che dovete fare, quello che dovete pensare e sentire! Non vi consegnate a questa gente senz’anima, uomini-macchina, con una macchina al posto del cervello e una macchina al posto del cuore! Voi non siete delle macchine! Siete degli uomini! Con in cuore l’amore per l’umanità! Non odiate! Sono quelli che non hanno l’amore per gli altri che lo fanno.
Soldati! Non combattete per la schiavitù! Battetevi per la libertà! Nel diciassettesimo capitolo di san Luca sta scritto che il regno di Dio è nel cuore degli uomini. Non di un solo uomo, non di un gruppo di uomini, ma di tutti voi. Voi, il popolo, avete il potere di creare le macchine, di creare la felicità, voi avete la forza di fare che la vita sia una splendida avventura. Quindi in nome della democrazia, usiamo questa forza, uniamoci tutti e combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia agli uomini la possibilità di lavorare, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza».Charles Chaplin, Il Grande Dittatore
Non c’è più spazio per le auto che sfrecciano alla ricerca delL’arte della felicità, nella Napoli dell’immaginario animato di Alessandro Rak, né tanto meno per le imbarcazioni di lusso ormeggiate in Gatta Cenerentola. A rendere riconoscibile il mondo post-apocalittico di Yaya e Lennie – The walking liberty sembrano essere rimasti solo qualche pezzo di murales dal cuore azzurro che riemerge fra le frasche e qualche ricordo del golfo partenopeo nei tempi che furono, intrappolato su qualche megaschermo ipertecnologico ormai impolverato di fronte agli scheletri. Il resto è tutto natura e guerriglia, alberi e uccelli che hanno imparato a imitare gli spari, neo-società militarizzate e sogni di libertà di chi non le accetta. Una distopia che al deserto post-atomico di Mad Max preferisce il verde speranza delle foglie e delle felci, e dove non è un certo un caso che sia il “vecchio” cinema in pellicola, con il monologo di Chaplin ne Il grande dittatore, l’ultimo baluardo di memoria e di fiducia per chi non si arrende. Eppure parte se possibile da ancora più lontano Yaya e Lennie. Parte dalla letteratura, dal grande romanzo di formazione americano, dall’immaginare due protagonisti che, come suggerisce il nome del secondo, sembrano provenire direttamente dalle pagine di Uomini e topi. Lui, Lennie, gigantesco quanto poco intelligente e proprio per questo così puro e ingenuo nel suo cuore d’oro, e lei, Yaya, esattamente all’opposto sveglia e brevilinea, pronta a rievocare in abiti femminili il George Milton immaginato nel 1937 da Steinbeck con il pragmatismo a volte rude e l’umanità di una donna decisa e ostinata che, sotto il suo cappello da Corto Maltese a sormontare la sigaretta costantemente in bocca e la carnagione mulatta, non smette mai di pensare per entrambi e di affezionarsi sempre più all’amico che senza di lei sarebbe perduto. Eppure, a differenza del capolavoro letterario con cui Steinbeck anticipava di due anni quelle che sarebbero state le istanze progressiste del suo Furore, il regista e fumettista napoletano non avrà bisogno di virare nella tragedia di gesti estremi d’amore fraterno per animare la strenua resistenza di Yaya e Lennie, «nati alla fine del mondo, sbagliati, ma liberi». Sarà sufficiente seguirli nelle loro (dis)avventure e nei loro incontri, lasciare che siano costretti a perdersi per poi ritrovarsi, vivere con loro l’illusione di riuscire a giungere nella Terra della Musica, landa felice senza più abusi né privazioni tanto immaginata da diventare vera. Un terzo lungometraggio con il quale Rak alza ulteriormente l’asticella delle ambizioni per approdare a una fantapolitica ecologista e antimilitarista, che immagina un mondo ormai governato da un’Istituzione vera e propria proprietaria dei suoi cittadini nel quale solcare insieme i fiumi e le foreste che hanno ormai ripreso possesso del pianeta. Una costante fuga dal sistema che, fra infiltrati maradoniani e villaggi nei quali in qualche modo ancora «l’Istituzione non vale un cazzo», non potrà che portare a una nuova Rivoluzione, unico modo per essere liberi.
Inizia nei meandri dello Spazio, Yaya e Lennie – The walking liberty, per poi addentrarsi nella giungla terrena e incontrare i protagonisti sulla loro zattera. Una tappa dopo l’altra, sempre in fuga dalle milizie, sempre alla ricerca di un rifugio sicuro, fra Lennie violentemente aggredito dai lupi e la moneta bifronte ereditata dalla compianta zia Claire con le cui scelte evitare la morte, fra le imboscate dei soldati e l’intervento dei partigiani capitanati dagli «¡Hasta la revolución!» di Rospoleon (straordinario nella voce di Francesco Pannofino) a rubare le divise ai generali dell’Istituzione per insinuarsi nel loro quartier generale e tentare di distruggerlo, fra la fusoliera relitto di un’astronave abbandonata nella foresta in cui passare la notte e i salvataggi di André il cui amore per Yaya sembra – o forse no, ed è solo l’ennesimo tradimento – essere più forte del lavaggio del cervello subito dall’Istituzione di cui fa ormai parte, strappato alla sua famiglia insieme a tutti gli altri giovani ma ancora memore di quella che era la vita in libertà. Certo, non manca qualche pennellata di retorica instillata nei meandri della sceneggiatura, né qualche semplificazione forse di troppo, con i personaggi in sostanza divisi in buoni resistenti e cattivi dell’Istituzione in divisa mimetica e maschera antigas, potere costituito per il quale la vita è catena di montaggio, la sanità è una pratica robotizzata, l’individuo è un numero e la socialità è mero sfruttamento delle risorse umane. Eppure, per quanto probabilmente Yaya e Lennie sia un po’ troppo impegnato a rincorrere le sue alte ambizioni politiche per raggiungere la freschezza e la lucida potenza dei due precedenti lavori di Rak, e per quanto al contempo il regista abbassi di qualche anno il target di riferimento passando di fatto dagli adulti agli adolescenti, guadagnando ulteriormente in forma e in avventura ma perdendo probabilmente qualcosa nella maturità della sostanza, viene difficile non ritrovarsi a difendere a spada tratta un’animazione italiana alternativa e senza compromessi che continua coraggiosamente a esistere e a rinnovarsi nonostante il diffuso disinteresse produttivo e dell’industria per tutto ciò che non è smaccatamente per la prima infanzia. Una strada da battere a ogni costo, da perseguire indefessi fino all’ultima parolaccia messa in bocca a un cast stellare in cui Tommaso Ragno incontra Lina Sastri, da portare avanti con la pazienza e la passione del gruppo di lavoro capitanato da Rak e con la fiducia della Mad Entertainment, fino a trovare i colossali trecentottantaquattro metri quadri dello schermo di Piazza Grande come perfetta vetrina internazionale, al 74mo Locarno Film Festival, in cui raccogliere gli applausi in prima mondiale dopo un lavoro lungo tre anni di disegni e di animazioni digitali, di fotogrammi e di colorazioni, di composizione delle musiche e di registrazioni dei dialoghi, di motion capture e di rielaborazioni computerizzate. Tre anni in cui le mascherine e le disinfezioni immaginate in sceneggiatura come pura contro-utopia sono invece diventate la realtà in cui vivere ogni giorno, e in cui i rapporti umani (s)oggetto del film sono realmente cambiati fra distanze e sfiducia, nuove regole e nuove fazioni messe una contro l’altra. Come a dire che la distopia non sembra essere poi così lontana, in un pianeta che deve fare i conti con tutte le implicazioni sociali di una pandemia mentre ormai Siracusa supera i 48° gradi e non ci sono sufficienti mezzi per spegnere gli incendi, in cui dopo vent’anni i Talebani sono tornati a seminare terrore, morti e misoginia in Afghanistan, e in cui le civiltà occidentali sono piombate nel più nero declino socioculturale di cui si abbia memoria. Yaya e Lennie, con la sua cittadella infernale di spersonalizzazione e lavori forzati dalla quale tenersi lontani, ricorda la necessità di passare all’azione, di lottare in prima persona per salvare il salvabile prima che sia troppo tardi, ma soprattutto che sono la sincerità, la fiducia e l’affetto le principali armi in mano all’umanità che ancora, indefessa, resiste. Fino a trasformare l’intero mondo nella Terra della Musica, forse, o per lo meno a trovare il proprio posto, la propria indipendenza, la propria libertà. La stessa, totale e sempre corroborante, del cinema di Alessandro Rak, vagito di speranza per un cinema d’animazione italiano finalmente capace di rompere con la prassi per crepitare di una sua personalissima vitalità. La strada maestra, dopo tre film, è ormai ben tracciata. Non resta che seguirne l’esempio.
Marco Romagna