9 Luglio 2021 -

THE VELVET UNDERGROUND (2021)
di Todd Haynes

Certo, ci sono gli split screen che sospirano alla pop art warholiana, ci sono le citazioni del New American Cinema che riportano al miracoloso fremito avanguardistico degli anni Sessanta newyorchesi, c’è l’archivio (non solo) della Factory che si intreccia con le interviste del presente. Eppure sembra quasi una trasposizione in immagini di un paio di pagine Wikipedia The Velvet Underground, documentario Apple sulla parabola della band capitanata da Lou Reed che giunge fuori concorso nel 74mo Festival di Cannes prima della distribuzione internazionale direttamente sulla piattaforma di Cupertino. Un film di Todd Haynes, recitano i titoli di testa e di coda, ma a vederlo non lo direbbe praticamente nessuno, compitino così meccanico e superficiale nell’accatastare come un Bignami date, eventi e spezzoni di esattamente quelle canzoni più note (Heroin, Sweet Jane, Sister Ray, All Tomorrow’s Parties, I’ll Be Your Mirror) che il grande pubblico vuole sentire, e soprattutto così freddo e privo di quel trasporto emotivo che ci si aspetta sempre dal grande autore losangelino. Della sua sensibilità, quella che ha fatto grandi Far from Heaven e Carol, ma pure il generalmente snobbato Wonderstruck, c’è solo un singolo lampo, nel finale che ritorna a far parlare per un’ultima e impossibile volta Lou con Andy Harhol di colori, di arte e di quei vecchi amici che, proprio come loro, non ci sono più, mentre il resto è una semplice cronologia compilativa, che dai primi vagiti e viaggi di Lou Reed e John Cale riporta alle varie tappe della loro formazione e poi della loro carriera insieme a Sterling Morrison, Moe Tucker, per un po’ Nico e successivamente Doug Yule senza nemmeno provare ad andarne a cercare la vita, l’intimità, l’essenza. Non si fraintenda: The Velvet Undergroung è un lavoro preciso e puntuale, tutto sommato perfino godibile per una visione distratta sul piccolo schermo di casa fra le parole, le immagini e le canzoni, eppure troppo banale e smaccatamente televisivo nel cercare “la storia” e non il cuore, i fatti e non le loro implicazioni emozionali, l’ambiente e non – davvero – gli esseri umani che lo hanno fatto. Quasi l’opposto, se vogliamo, della strabordante digressione dylaniana di I’m not there, in cui il Bob Dylan in più corpi era un puro spirito, ispirazione, talento, intelligenza, ma soprattutto l’amore profondissimo di chi per oltre mezzo secolo di carriera ha realmente vissuto le sue canzoni, la sua parabola, il suo personaggio, la sua letteratura. Come se a Haynes, dei Velvet Underground, delle sperimentazioni rivoluzionarie nella loro musica base fondamentale per tutto il rock/punk successivo e del mito che ancora incarnano, tutto sommaro interessasse solo relativamente, senza trasporto, senza reale passione, e quasi li sfruttasse per soddisfare svogliatamente la committenza e concentrarsi su ciò che, intorno a loro, ben più lo interessa e lo affascina, ovvero l’ambiente intellettuale e i locali gay della New York anni Sessanta, gli appartamenti warholiani e i Festival itineranti di arte espansa della Factory, il cinema d’avanguardia e la partecipazione condivisa ai fremiti artistici. Ingredienti fondamentali del loro percorso, certo, eppure in qualche modo monchi nel raccontarli senza nemmeno provare a percepire in profondità il côté sentimentale e il senso di vuoto di chi li ha vissuti, plasmati e resi così irripetibili.

Inizia con le parole di Baudelaire che introducono il vecchio spot di una nota marca di sigarette The Velvet Underground. L’alto e il basso, il decadentismo e il pop, la speculazione filosofica e il prodotto di consumo. L’avanguardia e la pop art racchiuse in un rumore bianco. Fino al quiz show televisivo d’annata in cui un giovanissimo John Cale parla del concerto di 18 ore del quasi omonimo sperimentatore John Cage, o delle note a margine di Erik Satie su come ripetere lo stesso spartito 840 volte di fila. Si parla della necessità di violenza della musica, dei pianti armonici di un pianoforte distrutto con un’ascia, della necessità di scardinare dalle fondamenta tutto ciò che è prassi. Eppure, a ben vedere, The Velvet Underground è per la maggior parte proprio prassi. Un film privo di sussulti, di lacrime, di passione, di un qualcosa che già non si sapesse, e privo pure di quel reale lavoro linguistico che, in questo caso, più ancora che filologia sarebbe stata una mera questione di rispetto: provare a perseguire qualcosa di meno banale di qualche flicker rubacchiato all’archivio e della frammentazione ormai inflazionata da decenni degli split screen per unire ancora una volta nel nome dei Velvet Underground la quarta e la settima arte. Non certo una narrazione anno per anno, confezionata seguendo pedissequamente i cenni biografici più noti dei vari componenti della band e lasciandoli raccontare e ricordare, da soli e a vicenda, nel botta e risposta fra le voci d’archivio, i filmati delle vecchie bolex, le opere del New American Cinema e le testimonianze di oggi. Seppure le interviste, che nelle intenzioni tendono più o meno tutte alla glorificazione fra gli ancora vivi John Cale, Maureen Tucker e Doug Yule, passando per critici, produttori, musicisti, superstar warholiane, Jonas Mekas che racconta la 42ma strada e John Waters (cosa c’entra John Waters? Ce lo stiamo chiedendo anche noi…) riescono a restituire il trasporto umano e la sofferenza che, prima ancora di droghe e velleità sperimentali, stavano alla base del gruppo, del suo mood, dei suoi testi, della sua ragion d’essere. Nemmeno le sorelle e le ex mogli che parlano di Lou Reed ci riescono, e forse neanche quell’unica e ultima foto con Laurie Anderson che invece nel film non c’è, perché non è stata parte di quegli anni – gli anni, appunto, e non i Velvet Underground – che interessa sviscerare a Todd Haynes.
C’è solo quella chitarra che Reed ha imparato a suonare da autodidatta consumando dita e puntine sui solchi dei dischi, c’è solo quella viola che Cale aveva scelto al posto del violino quando, prima di ‘radicalizzarsi’, sognava dal suo Galles di diventare direttore d’orchestra classico, e poi c’è Allen Ginsberg fondamentale ispirazione per entrambi prima che si conoscessero e iniziassero a esibirsi insieme cambiando spesso nome, perché «nessun locale ci avrebbe mai richiamati». Fino alla svolta dell’incontro con Andy Warhol, le sonorizzazioni dei suoi vari Kiss, Empire State Building e Blowjob (rigorosamente proiettati nella fluidità rallentata e sognante dei 16 fotogrammi al secondo) a cercare un punto di sintesi panartistico fra l’avanguardia del cinema e l’avanguardia della musica, il suo suggerimento di far cantare tre canzoni alla perfetta voce «strana» e mascolina di Nico, la sua produzione del primo album con la celeberrima banana, e poi le tournée insieme a tutta la Factory. Tutti eventi già perfettamente noti, freddamente enumerati e in realtà nemmeno troppo approfonditi, proprio come noto è l’inizio della fine, Nico mai realmente integrata che abbandona i Velvet Underground prima ancora dell’uscita di White Light/White Heat, i crescenti dissidi fra Reed e il ben presto licenziato Cale, e poi la progressiva normalizzazione del gruppo fino all’inevitabile scioglimento, le carriere soliste e la breve reunion di metà anni Novanta definitivamente chiusa dalla morte di Sterling Morrison. Quello che manca, paradossalmente e tristemente, sono i “veri” Velvet Underground, la profondità del loro malessere e delle loro istanze, dei loro sentimenti, le loro reali fragilità e la loro capacità di ipnotizzare il pubblico. E no, non basta farlo dire agli intervistati, va anche fatto sentire. Anche e soprattutto se al tavolo di montaggio c’è Todd Haynes, che di quel cuore qui pressoché assente ha sempre fatto il centro nevralgico del suo cinema.

Marco Romagna

“The Velvet Underground” (2021)
Documentary | United States
Regista Todd Haynes
Sceneggiatori Todd Haynes
Attori principali Lou Reed, John Cale, Maureen Tucker
IMDb Rating N/A

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