Sa esattamente cosa vuol dire vedere un affetto anziano che ridiventa un bambino, Tout s’est bien passé. Sa esattamente cosa vuol dire vederlo sfiorire giorno dopo giorno, sa esattamente cosa vuol dire vedergli perdere il controllo del corpo e della memoria, sa esattamente cosa vuol dire vederlo piangere imbarazzato quando è lui stesso a rendersi conto del suo stato, sa esattamente cosa vuole dire doverlo curare, imboccare, pulire e lavare, in attesa solo dell’inevitabile epilogo. Conosce alla perfezione quel vuoto anticipato, quei momenti in cui il cuore si fa piccolo fino a sparire, quella sensazione di impotenza e profonda afflizione di fronte a un letto d’ospedale, quell’improvviso riemergere dei ricordi di quando lui era ancora giovane e forte, e mai avrebbe immaginato di ridursi con il pannolone. Ha perfettamente presenti quelle lacrime amarissime versate silenziosamente nel chiuso di una stanza, quando davanti a lui ci si sforza per apparire sempre sorridenti, positivi, vitali, il più possibile felici. In realtà devastati, svuotati, inebetiti dal dolore, ma al contempo pieni di forze che sembrano arrivare da chissà dove per accompagnarlo fino all’ultimo, per stagli vicino, per dimostrargli tutto l’amore. Per cercare fino in fondo di eseguire i suoi desideri e le sue volontà, anche quando non si è d’accordo e si spera fino all’ultimo che cambi idea. Tanto che non serve nemmeno necessariamente aspettare i (notevolissimi) momenti di maggiore intensità emotiva, per sentire gli occhi inumidirsi durante la visione del nuovo e dopo qualche giro più e meno a vuoto finalmente ispirato Ozon. Forse non tanto per il filmico in sé, storia d’amore, morte ed eutanasia come diritto sacrosanto e (il)legale a una dipartita lucida e signorile, ma per la delicatezza, l’apparente leggerezza e la strabordante sincerità con cui riesce a dialogare con il vissuto dello spettatore, a rievocare ricordi personali in chi guarda, a riportare di fronte agli occhi un padre o un nonno nei giorni della sua malattia, della degenza, della necessità di annullarsi per lui. Del resto nasce da una catena d’affetti Tout s’est bien passé, presentato in concorso a Cannes 2021 dopo il ‘bollino’ dello scorso anno al mediocre Été 85. Quello profondissimo di Emmanuèle Bernheim, autrice dell’omonimo romanzo autobiografico, per quel padre malato, ironico e lucidissimo che dopo l’ictus le chiese apertamente e insistentemente di portarlo a morire, e quello di François Ozon nei confronti della scrittrice scomparsa nel 2017 e qui interpretata da Sophie Marceau, co-sceneggiatrice nei primi Duemila dei suoi Sotto la sabbia, Swimming pool e CinquePerDue. È a lei, amica e collaboratrice che non c’è più, che è dedicato il film tratto dalla sua opera più intima, narrazione in prima persona dei sette mesi agrodolci dello spegnersi gentile, consapevole e dignitosissimo di suo padre, con lei stessa chiamata a organizzare quel suicidio assistito in Svizzera che mai e poi mai avrebbe voluto, ma che da figlia ha supportato fino al rischio del carcere, agli interrogatori notturni, a quell’ultimo lacrimato abbraccio sull’ambulanza, e poi al ritorno di quell’ispirazione come ultimo incommensurabile dono di un padre a una figlia narratrice che non poteva che finire per raccontare questa storia.
Si apre e si chiude al telefono, Tout s’est bien passé. Il primo che squilla all’improvviso, come il deflagrare di un ordigno nella vita di Emmanuèle, e il secondo che al termine della parabola di sette mesi le comunicherà placidamente dalla clinica di Berna che, come da titolo, «è andato tutto bene». L’alfa e l’omega dell’agonia, dal padre grave in ospedale dopo l’ictus alla sua uscita di scena in piena serenità ascoltando Brahms fra le montagne dell’altopiano. Con in mezzo tre o quattro trasferimenti d’ospedale, le necessarie tutele legali su carta e su audiovisivo per le figlie che accetteranno di aiutarlo, e soprattutto l’inevitabile bilancio di quella sua vita che tanto lo aveva stancato, fra la sua omosessualità per troppi anni repressa e successivamente esplosa, la moglie artista ormai affetta da Parkinson e depressione che da tanti anni lo disprezza, il pericoloso ex-amante Gérard (chiamato simpaticamente Faccia di Merda dal resto della famiglia) che si ripresenta a minare equilibri già precari, ma anche l’amore incondizionato delle figlie – «è un pessimo padre, ma gli voglio bene» – e l’orgoglio per il talento del nipotino clarinettista ai primi concerti, salvo magari addormentarsi a metà della sua esibizione. Un uomo troppo vivo, arguto, (pericolosamente) chiacchierone e brillantemente ironico per potersi accontentare di sopravvivere, drammaticamente limitato nei movimenti e costantemente bisognoso di assistenza, ma soprattutto fragile e impaurito per la consapevolezza di non poter più camminare né badare a se stesso. La sua volontà di morire è ferrea, radicata, un’ossessione alla quale dedica ogni pensiero e ogni piccolo segno di ripresa fisica, con quella fisioterapia così fondamentale per poter bere – rigorosamente da solo – quelle agognate pozioni che lo condurranno via per sempre. Eppure non è il suo, il punto di vista. È sempre Emmanuèle che Ozon tiene a fuoco, nella sua necessità di essere forte e sostenere il padre in ogni sua fase, in ogni sua decisione, in ogni suo (e solo suo) desiderio, a costo di mettere da parte le proprie speranze e le proprie opinioni, e fare tutto il possibile per accontentarlo nella sua giocoforza ultima volontà. Ed è qui che Tout s’est bien passé trova la sua forza, la sua delicata naturalezza nel trattare la più spinosa fra le materie senza mai cedere alla retorica, alla lacrima facile o alla pornografia dei sentimenti. Limitando al massimo la ricerca artificiosa e formale della lirica, e scegliendo invece, al di là di un incubo e l’irrompere improvviso di qualche ricordo da bambina, un’asciuttezza il più possibile invisibile da cinema classico, che possa lasciare emergere naturalmente e con tatto una poesia ancora più profonda, quella dell’umano, quella dei sentimenti, quella del candore. Ma anche quella dei ricordi personali e del vissuto dello spettatore, quella di emozioni lenite dal tempo ma mai uscite dalla sua testa e dal suo cuore, come un nervo per sempre inevitabilmente scoperto che consapevolmente Ozon va a sfiorare con dolcezza in modo che quelle stesse sensazioni riemergano dal loro cassetto, rivissute sullo schermo insieme ai protagonisti. Non un film sull’eutanasia, ma un film sull’amore, dato, ricevuto, sognato rimpianto, impossibile, totale. Un film sugli arrivederci che diventano addii, sull’illusione che quel vestito rosso gli faccia decidere di vivere ancora un po’, sulla consapevolezza di averlo reso felice. C’è semplicemente un uomo che sta morendo troppo lentamente, stanco della sua esistenza oramai solo parziale. Un uomo ancora capace di fare il cascamorto con vecchi amanti, camerieri, ambulanzieri e perfino il genero, ma ormai paralizzato e costretto a tanto letto e poca sedia a rotelle, desideroso solo di spegnersi circondato dalla sua famiglia come ogni affetto ormai irreversibilmente incamminato sul viale del tramonto è stato circondato dalla propria. E c’è chi di questa famiglia è parte, e che, come tutti (noi) quando viene il momento di farlo, per lui rinuncia per mesi o anni al sonno, all’ispirazione, al lavoro, alla famiglia, ai desideri, a ogni possibile forma di egoismo. Persino alla legge, quando la legge – francese esattamente come quella italiana – è ingiusta, insensata, quasi crudele nel negare la possibilità di bere l’amaro calice, di fatto condannando chi sta morendo e chi lo assiste ad abbeverarsi fino all’ultima goccia da un calice ancora più amaro di malattia e dolore. Ma non è la tesi ciò che interessa a Tout s’est bien passé, la morte dolce e le sue implicazioni legali sono solo una parte della storia. A quello che è di gran lunga il miglior Ozon dai tempi di Frantz interessa l’intensità, interessa il candore, interessa la partecipazione, interessa il cuore. Interessa il riemergere di un sorriso sapendo che è finita in piena serenità, proprio come voleva lui, e che è finalmente possibile ricominciare a immaginarlo felice. Ovunque sia.
Marco Romagna