28 Novembre 2020 -

CAMP DE MACI – POPPY FIELD (2020)
di Eugen Jebeleanu

Sono le poltrone rosse che emergono dal nero della sala di un cinema deserto, a fare il campo di papaveri di Camp de maci. Una distesa apparentemente infinita di schienali tondeggianti e tutti uguali, come un labirinto senza uscita in cui ritrovarsi soli nelle luci accese e in un disagio interiore impossibile da domare, bloccati dai colleghi messi a piantonare la stanza e divorati dall’ansia mentre le fantasie si tingono di disfattismo e l’autocontrollo è ormai perduto. È il luogo in cui deflagra il paradosso, in cui saltano i nervi, in cui la pressione del non sapere e del non poter agire si fa insostenibile, resi feroci dall’imbarazzo e dalla preoccupazione che il proprio castello di pubblica facciata crolli all’improvviso, svelando all’improvviso i propri segreti e le proprie fragilità proprio alle ultime persone al mondo che dovrebbero conoscerle. I morbidi cuscini vermigli paiono scomodi quasi alla stregua di cactus e carboni ardenti, mentre il protagonista Cristi si ritrova all’improvviso a doversi confrontare con le proprie contraddizioni e con i propri conflitti più profondi, con quella parte per cui ancora forse si sente in qualche modo sbagliato e con la paura di perdere la propria maschera, con i retaggi morali(stici) della società omofoba e ultracattolica in cui è cresciuto e con l’incapacità di accettare fino in fondo quella propria identità (omo)sessuale così accuratamente dissimulata e tenuta nascosta appena fuori dalle porte di casa. È il terrore di essere scoperto per quello che innocentemente è, ad attanagliare Cristi mentre passa nervosamente da una poltrona all’altra, è la paura di destare sospetti e di dover ammettere pubblicamente ciò che fatica ad ammettere pure a se stesso e ai suoi cari, mentre nemmeno un briciolo di senso di colpa lo sfiora per il suo atto violento e inconsulto, per la sua reazione smodata, per il suo avere appena picchiato un uomo innocente, consapevole che i colleghi lo copriranno, per lo meno fino a quando riuscirà a non far scoprire loro la sua omosessualità. Perché forse, nel mondo ipocrita, machista e spesso fascistoide della polizia, è più una tragica consapevolezza che una paura, quella di non poter essere accettato. Parlano chiaro le chiacchiere in pattuglia, i racconti quando non sono presenti civili di fronte ai quali recitare la parte dei giusti, l’atteggiamento e le pose di ogni giorno: un poliziotto deve necessariamente essere un duro eterosessuale e magari pure un filo sessista, seduttore più o meno seriale con alle spalle almeno un tentativo di approccio da parte di un qualche gay malamente liquidato in un bar – poco importa che sia vero oppure no, quello che conta è la virilità fallocratica del messaggio – da narrare al resto della squadra durante le serate di pattuglia. Tanto che è evidente, pur nel loro ostinato negarlo, come in quella diatriba fra i manifestanti bigotti e filofascisti che hanno commesso il sopruso (e il reato) di interrompere un pubblico spettacolo perché «osceno» e gli spettatori che avevano comprato un biglietto per vedere negato il loro sacrosanto diritto a guardarlo gli agenti tendano a parteggiare moralmente per i primi, per quanto in evidente torto sotto ogni punto di vista. Fa parte dell’indole della stragrande maggioranza di loro. O per lo meno, nella migliore delle ipotesi, del loro ruolo all’interno di un branco, in cui non ci si può mai permettere di scoprire il fianco svelando un’identità sessuale non in linea con lo stereotipo e con le attese.

A Eugen Jebeleanu, già noto da qualche anno in patria per le sue regie teatrali, è più che sufficiente una manciata di location per mettere in scena l’ennesimo notevolissimo esordio dietro alla macchina da presa in arrivo dalla Romania, presentato in concorso al 38mo Torino Film Festival e tornato a casa con il meritatissimo premio come miglior attore all’altrettanto esordiente protagonista Conrad Mericoffer. Bastano un appartamento e l’ascensore con cui salirci, bastano un’automobile e una camionetta, bastano un parcheggio nella notte e il cinema in cui si svolge la stragrande maggioranza della narrazione, e in cui la tensione del protagonista si fa sempre più fisica, palpabile, spinta fino al punto di ebollizione dai lunghi pianisequenza che insistono sui volti e dalla pasta polverosa di un Super16mm ruvido e iper-saturo che in tempi forzatamente online grida vendetta per la mancanza di un grande schermo e di una proiezione pubblica a teatro gremito, che sarebbe stato il perfetto controcampo della sala vuota in cui si svolge la (non) azione di Camp de maci, o Poppy field che dir si voglia. Una messa in scena minimale, che costantemente alimenta la profonda intensità di una sceneggiatura  il cui il dilaniarsi interiore procede a braccetto con un’impietosa disamina della società, e in cui i silenzi e gli impliciti contano forse ancor più delle parole, a ulteriore dimostrazione dello stato di salute attualmente senza eguali nel mondo di un cinema rumeno contemporaneo che pare destinato ormai, come già anticipato lo scorso anno dai Monstri. di Marius Olteanu, ad allungare il miracolo già dei vari Puiu, Porumboiu, Jude, Muntean, Netzer e Mungiu per almeno un’altra generazione di autori. Partendo magari, come in questo caso, proprio da un’attesa che pare infinita fra le poltrone di una sala che è un vicolo cieco, mentre l’irrequietezza e l’inquietudine di Cristi crescono palpabili nei dialoghi con chi è di volta in volta è incaricato di controllarlo. Discorsi che inevitabilmente continuano a girare intorno alla stessa momentanea ossessione e ai pensieri che corrono vorticosi verso il baratro, senza sapere che cosa la vittima del suo sopruso stia dicendo al capo e ai colleghi, né tanto meno a quali parti loro abbiano deciso di credere. È il risultato del vivere quotidianamente in un paradosso interiore e sociale, è il dubbio ancestrale di chi probabilmente è ancora alla ricerca di una stabile definizione della propria sessualità, ed è un ambiente pubblico e di lavoro che esponenzialmente alimenta quelle che sono le difficoltà di ogni coming out. Trovarsi a fronteggiare proprio una manifestazione omofoba, fra gli ultranazionalisti più puritani intervenuti con i loro striscioni e le loro immagini sacre a interrompere la proiezione di un film LGBT e quei colleghi con cui non tradirsi fino a esagerare talmente tanto nell’abiura da rischiare più volte di farlo, è per lui il punto di ebollizione. Fino al definitivo innesco, con quell’ex amante in mezzo al pubblico del cinema che invece non ha i suoi problemi nel dichiararsi omosessuale, e minaccia di rivelare ai colleghi l’inconfessabile del loro antico incontro carnale fino a scatenare la sua reazione violenta, aggressiva, omofoba. Perché è radicata nella società l’omofobia, all’interno delle famiglie e nelle scuole, nei quartieri e sui posti di lavoro, nei modelli che vengono imposti e nella paura del diverso. E anche in Cristi è radicata, nonostante la passione e la dolce premura nei confronti del compagno che lo aspetta a casa, nonostante le lenzuola ancora calde dal loro ultimo ritrovarsi. Lo è nelle forme di un blocco, di un’insicurezza, di una paura, di un’ancestrale vergogna. Come un qualcosa da insabbiare e negare recitando la parte del più intollerante conservatore, disgustato come e più dei commilitoni dalla sola idea dell’omoerotismo.

Indossando sul lavoro una maschera da duro che non può e non deve vacillare, Cristi si sente in qualche modo scisso in due parti, ed è per questo che non vuole in alcun modo uscire e rischiare di farsi vedere fuori con il suo compagno, e pure in casa, seguito nervosamente dai movimenti di una macchina da presa che sin da subito guarda a quella del Cristi Puiu di Sieranevada, vive la relazione quasi con vergogna, terrorizzato dalla pubblica ammissione e dall’altrui giudizio. Del resto anche la sorella Catalina, giunta quel giorno a trovarlo proprio per conoscerne il ragazzo francomagrebino e viaggiatore Hadi nei pochi giorni in cui si trova a Bucarest, si lascia espressamente scappare di aver voluto vedere la «fase gay» di un imbarazzatissimo fratello che la sta cacciando di casa, sottendendo come anche la famiglia considerasse l’omosessualità del protagonista un qualcosa di passeggero da cui magari prima o poi “guarire”. E pure Hadi, da parte sua, pone un ulteriore accento sulle contraddizioni con il suo dimostrare tutta l’elasticità di cui Cristi non è capace, accettando «Bismillah», “in nome di Dio”, un pezzo di carne di maiale inavvertitamente offertogli da Catalina subito dopo la sua preghiera a Maometto. Solo il caso – o meglio, la straordinaria sceneggiatura di Ioana Moraru – ha voluto che proprio nello stesso giorno, poco più avanti, il turno di notte in polizia di Cristi sarebbe stato destinato a quella manifestazione e a quel cinema, a quell’ultranazionalismo e a quel fondamentalismo religioso, a quelle icone della Beata Vergine Maria (ogni eventuale riferimento a squallidi politicanti populisti italiani contemporanei è del tutto voluto e intenzionale) e a quelle bandierine con il tricolore della Romania, a quegli striscioni e a quei volantini, a quell’inno nazionale e a quella convinzione di avere ragione senza nemmeno rendersi conto che la carità e l’accoglienza cristiana sono in realtà l’esatto opposto della loro intolleranza. Fino a quel volto che sarebbe stato molto meglio non vedere, da fare prima ipocritamente finta di non riconoscere, e poi da colpire quando la sua insistenza fa saltare i nervi sotto pressione e contraddizione. Un atto grave dal punto di vista umano e disciplinare, e al contempo un altrettanto grave errore tattico nell’opportunità di risolvere civilmente il problema, dopo il quale ritrovarsi solo fra le poltrone sotto una pressione ancora più insostenibile e con i nervi ancora più in tilt, rinchiuso, piantonato, senza più poter parlare al giovane per supplicarlo di non rovinargli la quotidiana esistenza. «Dio non ha fatto i rumeni omosessuali e non vuole orge nelle fabbriche», gridano i manifestanti, definendo ogni forma di progressismo e di tolleranza alla stregua di una devianza di «sporcaccioni sessomarxisti», e qualcosa nell’omosessuale Cristi, complice probabilmente anche la reazione dei pochi affetti a cui si era pentito di aver rivelato la sua natura, è ancora come loro. La sua parte più conservatrice e imbarazzata, la sua dicotomia, il suo dilaniarsi interiore. Il suo senso di colpa, fra l’incertezza e la repulsione, per quello che è. Quella parte che sotto pressione lo manda in tilt, e che lo porta a un rinnegare sempre più violento, mentre l’immaginazione galoppa e progressivamente cadono i veli dell’ipocrisia che serpeggia sotto l’apparenza tollerante e giusta della polizia.
Perché è in generale sull’arretratezza culturale della società, che riflette Jebeleanu con intelligenza, sapidità e non pochi spunti di teoria cinematografica nella tensione di un thriller psicologico in cui il campo nient’altro è che la sofferenza dell’immaginare impotenti il fuoricampo senza poterlo vedere, sentire né controllare, costretti a tenersi tutto dentro e a sperare. Senza una verità in tasca e senza mai un giudizio, ma intavolando una riflessione che scava nelle contraddizioni e nelle ambiguità dei singoli e dei gruppi, ragionando sulle diverse forme di eredità culturale di un lungo regime fra le cicatrici interiori e quelle pubbliche, sociali e degli ambienti lavorativi. Con la cura che merita l’osservazione delle mille facce di un prisma, i primissimi piani e i fuochi cortissimi catturano le emozioni contrastanti di ogni stratificazione che si dipingono quasi impercettibili sul volto e nella voce del protagonista, fra i suoi scatti isterici e i suoi silenzi più interminabili, fra il suo interiore logorarsi e i suoi rapporti con capo e colleghi, fra il suo disagio esistenziale e la sua falsa reputazione da provare a tutelare. Una tensione che rende ambigua ogni parola, anche quando l’azione è finita e il ragazzo colpito è tornato a casa senza aver sporto denuncia. Anche quando è ora di telefonare amorevolmente ad Hadi, perché sappia dove cercare la cena negli sportelli di casa. Anche quando la notte è diventata giorno, e non si riesce a capire se i colleghi hanno capito, se hanno creduto alle parole di quel ragazzo nel cinema che disvelava il suo segreto oppure alle sue. Se la gentilezza sia maggiore oppure minore del consueto, o se quei «baci» di saluto non siano in realtà di derisione o di desiderio, se quell’invito a vedere insieme la successiva partita di calcio non nasconda l’inizio del nonnismo o di un gioco di seduzione di chi sulla carta è altrettanto insospettabile. L’ennesima equivocità evasiva, l’ennesimo dubbio che assale soffocante, l’ennesimo campo di papaveri in cui perdersi da qualche parte fra i petali rossi e l’anima nera. L’ennesimo fra i capolavori, o giù di lì, di una Nouvelle Vague che da circa vent’anni parte da Bucarest e dintorni per insegnare a tutto il mondo come si deve fare per scrivere e mettere in scena un grandissimo film dopo l’altro, sempre più complessi, intelligenti, emotivi, stratificati. Definitivi proprio nella consapevolezza della loro estrema provvisorietà. Non si può fare altro che ringraziare, e cercare di imparare qualcosa.

Marco Romagna

“Poppy Field” (2020)
81 min | Drama | Romania
Regista Eugen Jebeleanu
Sceneggiatori Ioana Moraru
Attori principali Conrad Mericoffer, Alexandru Potocean, Radouan Leflahi, Cendana Trifan
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

ONE SECOND (2020), di Zhang Yimou di Marco Romagna
METRONOM (2022), di Alexandru Belc di Bianca Montanaro
FUNNY FACE (2020), di Tim Sutton di Anna Chiari
DO NOT EXPECT TOO MUCH FROM THE END OF THE WORLD (2023), di Radu Jude di Marco Romagna
IN THE MOOD FOR LOVE (2000), di Wong Kar-wai di Bianca Montanaro
MY AMERICA (2020), di Barbara Cupisti di Vincenzo Chieppa