«Il paradiso geme al fondo della coscienza, mentre la memoria piange. Ed è così che si pensa al senso metafisico delle lacrime e alla vita come al dipanarsi di un rimpianto».
Emil Cioran, Lacrime e santi
Era il 1973 quando andò per la prima volta alle stampe L’inconveniente di essere nati, sofferto saggio filosofico in cui Emil Cioran esprimeva nella mestizia delle sue notti insonni il suo pessimismo esistenziale radicale, la contraddizione fra l’odio per la vita e l’irrinunciabilità delle esperienze, la sciagura del nascere e al contempo l’assoluta necessità dell’esserci. Un nichilismo caustico e amaro, estremo e provocatorio, secondo cui l’unica vera libertà nella vita finisce per essere il suicidio non tanto come gesto estremo da compiere, quanto come possibilità di controllo da tenere sempre a mente, come strada percorribile in ogni momento per tornare alla propria volontà. Una volontà che però, all’androide protagonista di The trouble with being born, viene negata del tutto. Ha solo una memoria programmata per soddisfare le aspettative del suo proprietario, senza emozioni né ricordi personali, senza desideri che non siano quelli degli altri, senza nemmeno un’identità di genere, né la possibilità di rendersi conto delle perversioni di un pedofilo che è progettata per chiamare papà. Ripete ciò che è stata programmata per ripetere probabilmente senza nemmeno capirlo, semplice corpo (meccanico) e voce da sfruttare, intelligenza artificiale senza le sinapsi per il passo logico e cerebrale successivo. Eppure, quando cambierà proprietario e da figlia diventerà surrogato di quel fratellino perso 60 anni prima, il reset del sistema operativo e la riprogrammazione non saranno sufficienti a evitare la recrudescenza delle vecchie memorie, e quindi la crisi di identità di un robot che non sa più chi è, ma che finirà inevitabilmente per fuggire e spintonare proprio come era fuggita e aveva spintonato chi l’androide aveva sostituito e impersonato. Ed è così che l’affascinante e coraggiosissima opera seconda di Sandra Wollner, già a febbraio fra gli Encounters della Berlinale e ora portata in Italia – costretti all’ultimo minuto all’online dalla chiusura per decreto delle sale – dal Trieste Science+Fiction 2020, torna nuovamente a Cioran. Con lo stesso ragionare in termini ontologici ed esistenzialisti sull’identità e sulla memoria, con lo stesso scetticismo gnoseologico nella dolorosa impossibilità di trovare una risposta certa, con lo stesso affrontare di petto lo scandalo e lo scabroso di una pedofilia incestuosa. Con la stessa emotività tormentata e con lo stesso profondissimo umanismo, innestati nell’assoluto rigore (a)simmetrico del 4/3 e nelle lente carrellate verso Elli/Emil, negli inquietanti tappeti sonori elettronici di Peter Kutin e David Schweighart, nel continuo elidere il confine fra il fisico e il sintetico.
Del resto, nella sua fantascienza minimale e riflessiva, nelle sue dilatazioni e nel suo sguardo, The trouble with being born è tutto un film di confini e frammenti. Quello fra umano e computerizzato, quello fra un’identità e l’altra, quello fra figlia e amante, quello fra passato e presente, quello fra femmina e maschio, quello fra persona e personaggio. Quello fra musica atonale e voce sintetizzata, quello fra l’astratto dei pixel e la concretezza dell’immagine, quello fra la luce e il buio, quello fra il visibile e il suggerito. Quello fra la memoria e la percezione, e poi ancora l’aspettativa, degli uomini come degli androidi. La tecnologia si fa carne, ma quello che realmente interessa a Sandra Wollner è l’anima, il senso dell’esistenza, o forse la sua mancanza. Ben al di là dell’impossibilità di crescere di un corpo computerizzato, il legame (o il superamento, o la negazione, come la stessa autrice austriaca tiene a precisare nelle note di regia) di Pinocchio sta in un’intelligenza artificiale progettata per essere anaffettiva e insensibile persino di fronte alla morte violenta, ma lo stesso, nel delirio emotivo di un mondo sempre più glaciale, paradossalmente meno disumana di quell’intelligenza umana che egoisticamente la sfrutta. Da una parte l’assenza di un pensiero che non sia un semplice e meccanico ripetere, e dall’altra il pensiero sbagliato di un’umanità ormai eticamente insalvabile, per la quale va benissimo sostituire con un robot privo di volontà la figlia sfuggita alle proprie devianze sessuali, e per cui anche un lutto lungo più di mezzo secolo forse non è tanto rimpiangere chi non c’è più, ma un individualistico piangere l’essere rimasti soli. Una visione profondamente pessimistica, ma forse non così tanto distante dalla realtà. È per questo che The trouble with being born è ambientato in un futuro imprecisato, ma così maledettamente vicino. Un futuro con una tecnologia solo di poco più progredita della nostra, ma dove tutto il resto è praticamente identico. Un futuro in cui inoltrarsi e capire a poco a poco, in cui dai baci troppo lussuriosi e dai racconti ambigui sotto una tenda in spiaggia si insinua progressiva nell’apparente normalità di piscine e cavallette una tensione sessuale di vestiti e canzoni, fino alle schede di memoria nella lingua e nella vagina. Un futuro in cui una vecchia donna annienta, ricostruisce, nuovamente sfrutta e poi rifiuta, incapace di metabolizzare i suoi traumi da bambina. Un futuro in cui l’emotività emerge dilaniata da un rigore di messa in scena senza dubbio calcolato, ma che sotto l’apparente freddezza non riesce a nascondere (né vuole farlo) il dolore, né il fascino, né la personalità autoriale. E poco importa che fra la prima e la seconda parte, con il cambio di identità e di famiglia, si possa avvertire una qualche scollatura o forzatura narrativa, così come poco importa che non proprio tutto sia definitivamente risolto e compiuto. Anzi, forse è addirittura necessario che rimanga qualche punto oscuro, che il ritorno della vera Elli avvenga quasi ai margini del quadro, che non siano più possibili nuovi incontri ma solo uno sfiorarsi con lo sguardo, che nemmeno il cammino lungo i binari all’appropinquarsi del treno abbia di nuovo quella stessa drammatica fine che aveva avuto per Emil. Perché sta proprio nella nebbia il punto, sta nel dubbio, sta nell’impossibilità di trovare risposte certe. Sta nella consapevolezza che anche l’ultimo tornare se stessi e spingersi verso il sole non potrà probabilmente avere mai una reale meta. Anche la straordinaria e giovanissima protagonista Lena Watson del resto, data la difficoltà e la delicatezza del ruolo in un film così rischioso, è rimasta protetta dalla stessa coltre di nebbia, coperta da uno pseudonimo e dal trucco prossemico che ne ha modificato i lineamenti in tutti e due i ruoli, e chiaramente sostituita nei nudi dalla tecnologia della CGI. Un garbo che è il vero e più cristallino ritorno all’umano, probabilmente. Quasi a dimostrare che non tutti, per fortuna, sono così insensibili. Anzi…
Marco Romagna