«Ho deciso
di perdermi nel mondo
anche se sprofondo.
Applico alla vita
i puntini di sospensione
che nell’incosciente
non c’è negazione»Morgan, Altrove
«A che cazzo serve una commedia che non fa ridere?», dirà il produttore al regista protagonista. Eppure, nel suo esplorare con delicatezza e pudore le fragilità nella malattia, la paura più intima e le debolezze dell’uomo, il dramma di chi da un momento all’altro scopre che la sua vita è appesa a un filo e che il tempo potrebbe non bastargli per affrontare tutto ciò che è rimasto inaffrontato, Cosa sarà fa (sor)ridere eccome. Senza quasi mai dover ricorrere una gag né a una reale battuta di spirito, senza mai forzare in alcun modo con un artificio scritto, ma semplicemente con la sua intensa forza vitale, con il suo cuore, con la sua tenerezza, con la sua profondissima sincerità, con il suo essere «semplice e delicato» come un figlio. Con la sua capacità di rielaborare il vissuto e la tragedia personale per farne alter ego e narrazione, e con questa increspare le acque del dolore fino all’emergere dell’ironia e della dolcezza. Un umorismo amaro e maturo, rispettoso e mai invadente, intimo e naturalissimo, che fa intelligentemente capolino nell’intrecciarsi dei piani temporali e dei pensieri profondi e ancestrali, alleggerendo il dramma e allontanando sin da subito qualsiasi rischio di cadere nel pietismo o nella retorica del dolore. Con il sospetto che la ex-moglie abbia intrapreso una relazione saffica, con gli «ho preso dalla mamma» con cui la figlia Adele ricorda al padre l’estremo affetto ma la non particolare stima, con l’autoironia e l’umiltà sulla scarsa notorietà pubblica, e persino la morte può essere realmente umoristica, quando giunge nel momento meno indicato. Quasi fosse un ultimo sguardo allo specchietto retrovisore, magari proprio di quella macchinina rubata durante l’infanzia come primo storico trauma da trasformare in un divertito giocare insieme, mentre si procede verso il dischiudersi del nuovo e agognato orizzonte in cui far letteralmente ripartire la vita (e il cinema, che poi per molti versi è la stessa cosa). Forse l’unico modo per rendersi conto di non essere stati realmente fregati, e che le persone possono non essere maligne come spesso appaiono.
È prima di tutto un grande esorcismo, l’opera quarta di Francesco Bruni. È la certificazione di una sua catarsi personale e familiare, è l’ultima e decisiva tappa di un percorso di riconciliazione, è la definitiva metabolizzazione di un trauma con cui finire di vincere, dopo quelli fisici, anche gli ultimi strascichi psicologici della rara forma di leucemia che negli scorsi anni lo ha colpito all’improvviso, costringendolo a ripensare il senso più profondo della sua vita e dei rapporti umani. Ma non sta solo nel cancro recentemente sconfitto, il vissuto di Bruni da elaborare ed esorcizzare, la parentesi di vita da chiudere e superare nella ritrovata serenità di chi tanto ha sofferto per vincere la sua battaglia. Ci sono anche le due città della sua vita, Roma e Livorno, ci sono anche tutte le passate incomprensioni familiari, c’è anche lo scontro fra le generazioni che non certo per caso è sempre stato una costante nella sua filmografia tanto come regista quanto come sceneggiatore (non solo) per Virzì. Ci sono i ricordi personali, ci sono gli incubi, ci sono i momenti di scoramento, e non può mancare nemmeno qualche riferimento alla personalità complessa e ai noti problemi di dipendenza del figlio Arturo, finalmente “ripulito” dopo l’abbandono della Dark Polo Gang.
È anche per questo che Cosa sarà è un film “di famiglia”, in cui la reale moglie di Bruni Raffaella Lebboroni interpreta la dottoressa che lo opererà, in cui la reale figlia appare sulle scale dell’ospedale come tirocinante in medicina, e in cui il figlio finzionale Tito ha molti meno tatuaggi ma gli stessi complessi e la stessa testa ossigenata del figlio reale Arturo. Eppure sarebbe estremamente limitante leggere Cosa sarà come un mero film autobiografico. Non vuole esserlo, non ha intenzione di ricostruire, non cerca di rimettere in scena le cose esattamente per come sono andate, ma si limita a prendere spunto dall’intimo per costruire personaggi e situazioni di finzione che sappiano essere universali e al contempo intrisi nella sincerità emotiva dell’esperienza personale, e con loro affrontare i temi più delicati con levità e gentilezza rifuggendo ogni machismo e anzi sdoganando del tutto la fragilità, i dubbi e il dolore nella malattia. Non conta che cosa sia realmente “vero” e cosa sia stato romanzato e rielaborato, ma contano il candore e la generosità di Bruni nel riplasmare sul corpo e nella mente di Kim Rossi Stuart – che non certo per caso nella finzione si chiama Bruno Salvati (o se si preferisce il “Bruni salvato”), di professione è regista di commedie di non particolare successo e ha due figli così simili ai suoi – la propria debolezza e la propria sofferenza, i propri affetti e i propri sentimenti, la propria angoscia e la propria consapevolezza di esserci ancora, il proprio emergere dei ricordi e i propri deliri onirici di terrore, sogni, incubi e allucinazioni da morfina. L’opposto, in qualche modo, del cliché del malato/soldato che combatte contro un male oscuro, perché pur costituendone il centro focale e l’origine non è la malattia il vero punto di Cosa sarà, ma sono l’intimità e i sentimenti, il rinsaldarsi di una famiglia e il senso di costante bilico, l’atto del resistere e il terrore di non farcela. Sono l’umanità e il ritorno della speranza, sono le interazioni e il reciproco sostegno.
Il risultato è di gran lunga il miglior lavoro di Bruni, un’agrodolce commedia drammatica e popolare venata di ambizioni autoriali che parte dal personale per riflettere sul resistere, sul ritrovarsi e sullo stringersi della famiglia, sul ripartire da quegli affetti che all’improvviso ci si era ritrovati a rischiare di perdere per vivere con più consapevolezza e con meno errori la propria seconda possibilità. Un film sul sentirsi vicini fisicamente ed emotivamente, sull’esserci l’uno per l’altro, sul superamento dei piccoli e grandi traumi con la reciproca fiducia e con la reciproca presenza, in cui poco importa che qualche momento possa essere meno efficace di altri o che qualche divagazione possa rischiare di rimanere non del tutto evasa, perché ciò che conta è il cuore, la sensibilità, la delicatezza, la ricerca degli altri, e paradossalmente anche l’imperfezione, ben più intima e personale di tanto impeccabile cinema glaciale e distaccato. In questo senso Cosa sarà è un film che fa bene, che emoziona, che tocca intimamente. Come nella commovente dedica finale al collega Mattia Torre che a differenza di Bruni non ce l’ha fatta, inghiottito dal suo mostro, consumato e portato via in giovane età dal suo lungo male. L’ennesimo atto dolcissimo di stima e amicizia, un pensiero, un ricordo, ma anche una ben precisa presa di coscienza etica ed esistenziale, la consapevolezza del privilegio di essere vivi e di dover continuare a vivere e a lavorare anche per chi non c’è più, per chi su quella barca non ha avuto la possibilità di salire. In qualche modo un tentativo disperato e dolcissimo di vincere nuovamente la morte, mantenendo vivo nella memoria personale e del pubblico un altro affetto.
Dai capelli rasati il giorno prima della chemio mentre Lou Reed canta Perfect day alla barca che navigherà Altrove, il nuovo lavoro di Bruni struttura i suoi tempi in flashback e pensieri fra il momento del ricovero, con la chemioterapia e il trapianto di staminali, ma anche con il rapporto con gli infermieri e la sofferenza fisica, e quello della nefasta diagnosi e della disperata ricerca di un donatore, mentre il passato da bambino e da padre non abbastanza maturo continua a fare capolino nei ricordi e nei sogni, nelle angosce e nelle riconciliazioni, nei turbamenti e nei sensi di colpa. È attraverso l’amore nei confronti di una madre morta tanti anni prima e che ancora appare giovane e dolcissima nei sogni più allucinati, che il protagonista ritroverà un transfert per l’affetto verso un padre troppo spesso assente e pasticcione (basterebbe lo scambio di regali natalizi e il Ciccio Bello finito sotto l’albero del piccolo Bruno), ma in questo caso fondamentale nei suoi tradimenti e in una figlia segreta di tanti anni prima. È il ritorno al cordone ombelicale con Livorno in giro per agenzie immobiliari di cui si sa solo il nome di Fiorella, a consentire di ricominciare a sperare. Ed è attraverso la minuziosa direzione dei suoi attori che Bruni ritrova e rielabora tutti quei momenti, quegli stati psicologici, quelle emozioni contrastanti che caratterizzavano i giorni dell’incertezza e della sofferenza prima della rinascita. Non tanto con l’ottimo (e almeno a tratti identico) alter ego affidato a Kim Rossi Stuart anche co-autore della sceneggiatura, quanto con i giovani Fotinì Peluso e Tancredi Galli, esordienti o poco più che come i vari Scicchitano, Bracci e Carpenzano dei lavori precedenti Bruni ha saputo scovare, impostare e lanciare. Un’altra speranza che nasce dalla speranza, se si vuole.
È però evidentemente nato sotto una cattiva stella, Cosa sarà. Un film che ribalta la paura della morte nella più pura vita, che grida a piena voce come l’unica via per uscire dal tunnel siano i rapporti umani e la socialità, e che sarebbe in grado di riconciliare con ospedali e malattie nel giro di uno sguardo d’amore filiale che spunta da una mascherina, diventato vittima del tutto incolpevole e reiterata di un’epidemia. Un film tanto intimo e catartico quanto maledetto o per lo meno sfortunatissimo nei tempismi, che si sarebbe dovuto chiamare Andrà tutto bene e che sarebbe dovuto essere distribuito già a marzo, ma pochi giorni prima dell’uscita, è pleonastico ricordarlo, è arrivato il lockdown, mentre quella frase che sarebbe dovuta essere il titolo si è ben presto legata a doppio filo a un altro tipo di trauma, questa volta condiviso, spingendo Bruni al cambio e all’attesa di tempi migliori per poter uscire nelle sale, che non è certo un caso che vengano dipinte come l’unico reale luogo deputato alla visione di un lungometraggio anche all’interno di un ospedale mentre l’unico momento in cui il protagonista riesce a rimproverare pesantemente il figlio Tito è quando compie il sacrilegio di guardare un film sul cellulare. Ma al destino, doppiamente perfido con il film di Francesco Bruni, tutto questo non importa. Non gli è bastato il lungo rinvio, non gli è bastato il cambio di titolo, non gli è bastata l’ostinazione quasi eroica del regista per andare nei cinema e non su piattaforme. Il fato aveva in serbo anche la beffa di concedergli di essere finalmente presentato fra i meritati applausi come chiusura della 15ma Festa del Cinema di Roma, per poi uscire nelle sale e dopo un solo giorno di programmazione essere nuovamente fermato dalla decisione del governo di chiudere cinema e teatri. Una decisione più che mai scellerata e sconcertante, non solo nel suo colpire deliberatamente la cultura considerata alla stregua delle sale giochi e nel suo rischiare di affossare del tutto gli esercenti già in difficoltà per la chiusura precedente e gli adeguamenti necessari per rispettare il protocollo, ma pure nell’evidente inutilità epidemiologica nel vietare per primi quelli che fra posti a sedere assegnati, distanziamenti e obbligo di mascherine sono di gran lunga, come certificato dal dato di zero contagi su oltre trecentomila spettatori dalla ripartenza, i luoghi più sicuri d’Italia. Ma questa, per fortuna, è un’altra storia, che si spera finisca molto presto. Cosa sarà, invece, rimarrà. Su quelli che saranno i grandi schermi sopravvissuti fino alla prossima ripartenza, s’intende, così come su quelli che saranno gli schermi più piccoli installati nelle varie case. Ma anche e soprattuto nei cuori di chi lo ha visto. Da lì, una volta entrato con l’intimo nell’intimo, con la sincerità nella sincerità, è dura che se ne vada. Periodicamente si ripresenterà, a ricordarci chi siamo, quanto in fretta possiamo essere costretti a doverlo ridiscutere e che cosa è realmente importante.
Marco Romagna