30 Settembre 2020 -

NUEVO ORDEN (2020)
di Michel Franco

«Solo i morti hanno visto la fine della guerra». Sembra essere questo il messaggio insito nel nuovo film di Michel Franco, Nuevo Orden, vincitore del Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria alla 77esima Mostra Cinematografica di Venezia. La stessa frase, attribuita a Platone, già usata da Ridley Scott nel suo Black Hawk Down (2001). Ma Nuevo Orden non è un film sulla guerra. È un’opera sottilmente distopica, che descrive un inquietante futuro con forte realismo, rendendolo così ancora più disturbante. Come in Animal Farm (1945) di Orwell, nel film di Franco si assiste a un ribaltamento del potere che degenera in un ennesimo esercizio di forza e sopraffazione. Franco porta sullo schermo la lotta di classe, quella stessa che abbiamo di recente visto in Parasite, in Les Misterables o in El Hoyo (2019), ma priva di intenti politici, come per delineare una sorta di monito affinché non si arrivi mai a tanto. Il film di Franco, volutamente duro, dalle immagini forti e quasi eccessive, sembra proprio avere lo scopo di sconvolgere, di toccare il pubblico nel profondo. In quest’opera è del tutto assente quella aurea mediocritas, quella misura che il tema così delicato richiederebbe, assistiamo invece a una rappresentazione diretta della violenza e dell’isteria che invadono le strade messicane. Ma non è tanto la violenza visiva a rendere il film davvero disturbante, quanto il nichilismo della vicenda rappresentato da Franco. Nuevo Orden non lascia spazio alla speranza. Descrive un mondo, o meglio una società, quella messicana, tanto intimamente dilaniata da ineguaglianze, sopraffazioni e giochi di potere da essere ormai priva di reali possibilità di redenzione e di salvezza. Un cinico spaccato di relazioni sociali e umane inevitabilmente corrotte dal denaro e dai privilegi, che non consente alcuna empatia o solidarietà, entrambe inesorabilmente schiacciate dagli ingranaggi di una macchina spietata. Un’amara riflessione sparata sul pubblico a tutto volume, con le tinte forti di una pittura pop, volte a ottenere un maggior coinvolgimento emotivo.
Già dalla sequenza iniziale, fortemente profetica, una serie di shots di grande impatto, montati velocemente, in qualche modo anticipano i temi e la forza visiva del film: cadaveri ammassati gli uni sugli altri, una sposa vestita di bianco isolata in mezzo a figure sfuocate, un fiume di vernice verde che inonda una scalinata deserta. Al di là della teatralità della ferocia rappresentata, rimane alla fine una cifra espressionistica nel film di Franco, merito in gran parte dell’uso smodato metaforico del colore verde che, visivamente ripetuto, sembra fungere da monito, elemento destabilizzante volto a creare tensione e anticipazione.
  L’uso del colore nel film non è affatto casuale: il verde, in forma di vernice usata copiosamente dagli insorti come simbolo della loro rivolta, è tinta predominante e crea un’atmosfera ansiogena, vagamente spettrale, distopica appunto, alludendo simbolicamente a temi quali corruzione e denaro. Il film investe molto su simbolismi e giochi cromatici nell’intento di dare più impatto visivo alla pellicola. Non a caso la protagonista Marianne indossa, per tutta la durata del film, un completo rosso cremisi, simbolo di quella carità umana di cui si fa portavoce, in aperta opposizione a quel verde associato a violenza e corruzione. E dove la narrazione sembra a tratti lacunosa e debole, Franco interviene con la forza delle immagini. Nuevo Orden appare infatti diviso in due parti, una prima, più intima, carica di forte tensione narrativa, più convincente e coinvolgente, e una seconda più raffazzonata, priva di coesione con la precedente. La sequenza iniziale, considerata ad oggi una delle migliori della filmografia del regista, mostra già in nuce quei conflitti che preludono alla tensione narrativa motrice di tutto il film. Attraverso gli sfarzi e gli eccessi di un banchetto di nozze di una coppia di ricchi rampolli della classe dirigente messicana, Franco dipinge un ritratto impietoso di una società irrimediabilmente divisa, destinata a soccombere sotto gli stessi idoli che tanto ha venerato. I rivoltosi che fanno brutalmente irruzione alla festa generando caos e morte, in puro stile Bong Joon-ho, lungi dal combattere per motivi nobili e ideologici, non appaiono di certo migliori della classe dirigente che vogliono destituire: fanno incetta di soldi, di telefoni, gioielli e orologi, tutto attraverso quella violenza che consente ogni eccesso.

Il film mette in scena due forze, due schieramenti in netta opposizione, da una parte i ricchi signori di origine europea, dall’altra gli indios, gli indigenti. Padroni e servi, due etnie diverse, entrambe meschine e bramose, pronte a combattere per gli stessi privilegi. I soli personaggi che tentano in qualche modo di stabilire un dialogo tra i due mondi, di superare barriere di potere e di classe, sono Rolando, l’ex dipendente giunto alla villa per chiedere aiuto per la moglie gravemente malata, e Marianne, la giovane sposa disposta a lasciare il suo stesso matrimonio per aiutare la donna. Entrambi destinati a essere vittime, come tutti gli altri, di un meccanismo cieco a tutto. Mentre in questa prima parte si evidenzia una divisione quasi manichea tra personaggi cinici ed egoisti e altri ben più compassionevoli che apparentemente escono illesi da questa prima ondata di violenza, il film brutalmente e irrimediabilmente sfocia in una seconda parte senza speranza. A una festa esagerata, pur del tutto plausibile, segue una strage esagerata per sangue e brutalità. Una strage fin dall’inizio priva di senso: i più colpiti non sono i responsabili di un sistema sociale corrotto e fallito, ma i succubi, i deboli, in particolar modo le donne che vengono quasi tutte brutalmente uccise, senza alcuna pietà nemmeno per la loro condizione di gestanti. Anche per questo il film appare terribilmente crudo nel mostrare l’atrocità di una società materialista, in cui non c’è spazio per i buoni sentimenti e per l’umana solidarietà. Ma non c’è mai cinismo gratuito, da parte di Franco. Non c’è mai soddisfazione nel mostrare la sofferenza e il dolore di una società ormai irrecuperabile, non c’è mai il travalicare dell’etica, non c’è mai quel sentirsi superiore e giudicare che tanto infastidisce nella contemporaneità cinematografica greca o austriaca. C’è una dolorosa e pessimistica accettazione dello stato delle cose, semmai, c’è un amaro sentore di sconfitta. L’intenzione del regista di omettere nella seconda parte il dramma più umano, intimo, psicologico, per far spazio alla mera e sensazionalistica ostentazione di sevizie e uccisioni sembra scaturire proprio dal voler condannare una cieca aggressività di fronte alla quale tutti siamo uguali, tutti siamo numeri, quegli stessi con cui vengono marchiati i prigionieri dell’esercito. Un marchio che non per caso Marianne, una volta rilasciata, si cancellerà dalla fronte.
L’unica via d’uscita, l’unica possibilità di salvezza, sembrerebbe quella suggerita di instaurare un dialogo, nel tentativo di superare quella divisione dura e invalicabile e andare oltre. Solo così Marianne avrebbe potuto salvarsi, se la sua famiglia e gli unici domestici fedeli, Marta e Cristian, avessero collaborato per riportarla a casa, invece che rimanere ancorati al disprezzo e alla rabbia di classe, vittime ignare di un potere di cui Franco ci mostra in modo brutale le dinamiche nascoste, senza intenti politici, ma usando la forza delle immagini crude in una narrazione semplicista. È questo forse il monito che Franco vuole esprimere, condannare una società materialista che, legata ai suoi errori e ai suoi pregiudizi, finirà per autodistruggersi, per rimanere prigioniera di un’agghiacciante pantomima. Il titolo del film, che appare a lettere rovesciate appunto, suggerisce in modo quasi ironico non solo l’inutilità del colpo di stato, ma anche l’ipocrisia di quel nuovo ordine stabilito che di nuovo non ha nulla, essendo fondato esattamente sulle stesse prevaricazioni e ingiustizie del precedente, i cui superstiti sono condannati a diventarne
  le vittime ignare. Una pantomima dalle tinte macabre, come suggerisce l’ultima scena, in cui una pubblica esecuzione schiera sue due linee opposte i capri espiatori di tanta ferocia e le vere vittime, gli ignari cittadini seduti fianco a fianco con i carnefici delle loro famiglie. Sono i morti infatti gli unici a vedere realmente la fine della guerra, gli unici davvero liberi di uscire da quell’ingranaggio di sangue e violenza, di prevaricazione e inganno. E i vivi, i superstiti, sono le vere vittime, condannati a rimanere soffocati nel nuovo ordine.

Anna Chiari

“New Order” (2020)
88 min | Drama | Mexico / France
Regista Michel Franco
Sceneggiatori Michel Franco
Attori principali Dario Yazbek Bernal, Patricia Bernal, Diego Boneta, Analy Castro
IMDb Rating 6.6

Articoli correlati

IN BETWEEN DYING (2020), di Hilal Baydarov di Marco Romagna
SELVA TRÁGICA (2020), di Yulene Olaizola di Bianca Montanaro
QUO VADIS AIDA? (2020), di Jasmila Zbanić di Anna Chiari
IN PRAISE OF LOVE (2020), di Tamara Drakulic di Marco Romagna
ZANKA CONTACT (2020), di Ismaël El Iraki di Bianca Montanaro
HOPPER/WELLES (1970-2020), di Orson Welles (cutter Bob Murawski) di Marco Romagna