11 Settembre 2020 -

HOPPER/WELLES (1970-2020)
di Orson Welles (cutter Bob Murawski)

Non è certo un caso che inizi parlando di improvvisazione, HOPPER/WELLES. Una sostanziale dichiarazione di intenti, un annunciare sin da subito quale sarebbe stato il gioco al quale i due registi e le due generazioni a confronto, in quel pomeriggio del novembre 1970, avrebbero giocato per le successive due ore abbondanti. Quella stessa improvvisazione fondamentale nel (magnifico, ma evidentemente maledetto) The last movie che Hopper stava girando proprio in quei giorni fra metacinema e amici sul set, e che ancora non poteva immaginare sarebbe stato bene accolto a Venezia prima di diventare quel colossale flop che lo avrebbe tenuto lontano dalla regia fino al 1980 di Out of the blue. Quella stessa improvvisazione che, mentre le due macchine da presa in 16mm vorticano intorno a Dennis Hopper che rimarrà sempre se stesso per tutto il corso dell’intervista, la voce di Orson Welles terrà viva per dal buio del suo perpetuo fuori campo interpretando senza (quasi) mai uscire dal personaggio quel JJ “Jake” Hannaford protagonista di The other side of the wind, anticipando e sostituendo John Huston che ne avrebbe preso i panni solo qualche anno dopo. È Hannaford che esaspera fino al parossismo il disprezzo mai celato di Welles contro il cinema «noioso» di Antonioni, è Hannaford il convinto franchista anticomunista che cerca di smascherare le ipocrisie anche politiche di un Hopper profondo conoscitore dei film e dei loro linguaggi, ma innovatore nel cinema quasi per caso e in sostanza incapace di approfondire e pensare come un reale rivoluzionario. Eppure, proprio come il personaggio incarnato da Huston sarà per molti versi leggibile come un alter ego wellesiano, pure il Jake Hannaford interpretato dallo stesso Welles è anche e forse soprattutto se stesso. Un simbolo del cinema classico, un sublime e non certo accomodante intellettuale inevitabilmente inacidito dagli ostracismi produttivi subiti per più o meno tutta la carriera, seduto di fronte all’emblema stesso della New Hollywood che solo un anno prima, trovando al contrario tutte le condizioni favorevoli e il percorso più semplice, era stato travolto e inebriato dal successo planetario di Easy Rider. Con l’obiettivo sì di raccogliere fiumi di quel footage largamente improvvisato da utilizzare successivamente sul tavolo di montaggio di The other side of the wind (come del resto farà in sua vece, nella ricostruzione il più possibile filologica del film incompiuto di Welles realizzata un paio d’anni fa per Netflix, il montatore Bob Murawski, facendo apparire Hopper al culmine della festa sulla quale non certo per caso cadono più volte i discorsi improvvisati di HOPPER/WELLES), ma anche con quello di mettere in luce tutta la superficialità che vedeva in quella nuova generazione di cineasti, il loro essere attori diventati registi senza avere la profondità né l’intelligenza di un autore classico, il loro sentirsi dei che costruiscono un mondo cinematografico da zero e non, come Welles, maghi in grado di trasformare in cinema ciò che si ha a disposizione attraverso il montaggio e la sua grammatica.

Orson Welles del resto, con la sua inarrivabile visione d’insieme, aveva già più volte in carriera utilizzato come metodo di lavoro la raccolta di materiale da ricostruire e rendere fluido in fase di montaggio fino a continuità impossibili fra i campi girati in un momento e in un luogo e i rispettivi controcampi realizzati magari molto tempo dopo, da tutt’altra parte e in del tutto differenti condizioni. Torna alla mente la travagliata genesi dell’Othello, con i noti pugni sferrati a Roma e la caduta del colpito filmata solo diversi anni dopo a Marrakesh, ma anche, più in generale, il quasi costante sviluppo wellesiano di materiali pensati per un qualcosa spesso mai portato a termine e invece riutilizzati in tutt’altro, da Rapporto confidenziale al Falstaff, da L’infernale Quinlan a F for fake. In questo senso, HOPPER/WELLES è un film che non esiste, non concepito in quanto tale ma come “semplice” controcampo di un campo ancora da girare. Un (non) film che nelle intenzioni originarie sarebbe dovuto servire semplicemente per carpire a Hopper qualche frase da utilizzarsi in The other side of the wind, sostituendo alle domande incalzanti dell’invisibile Welles la presenza fisica di Huston. Eppure, nel ritrovarsi di fronte al materiale fino a oggi inedito di HOPPER/WELLES, è apparso subito chiaro a Bob Murawski come il film già esistesse in quanto tale, miracoloso nel suo non essere pianificato ma in qualche modo già di fronte agli occhi, prodigioso nel suo emergere autonomo e straordinario dagli archivi. Un capolavoro semplicemente da montare, o meglio tagliare assecondando anche nei titoli di coda la presa di posizione di Orson Welles che definisce i montatori non registi non editors ma semplici cutter, “tagliatori” di pellicola, scegliendo come in una diretta televisiva fra i suoi due punti di vista senza interromperne il flusso aristotelico, lasciando inalterati i ciak di ogni cambio rullo (chiaramente sfasato fra le due macchine per non perdere nemmeno un istante) e il crescente mettere Hopper all’angolo da parte di un Welles spietato e rigorosamente fuori campo, quasi ad anticipare il (cinico)cinema di Franco Maresco. Fra il documentario e la finzione (essere se stessi o interpretare un personaggio), fra i punti di pianificazione concordata e la pura improvvisazione (il continuo rivolgersi di Hopper a «Jake» e le allusioni alla festa di compleanno fra attori e cineasti di The other side, ma al contempo il suo progressivo andare sempre più in affanno di fronte alle domande ingombranti e piccate di Welles), fra l’attaccare e il subire. Fra la preparazione di una scena e il rivederla sullo schermo, fra Gesù e Amleto, fra il classicismo e la (non reale) militanza di una rivoluzione che si mostra così pavida da rasentare paradossalmente la reazione. Fra il tenere costantemente le redini della conversazione e il non riuscire nemmeno a chiudersi a riccio fra una brutta figura e l’altra.

È un film con cui apertamente mettersi in litigo, HOPPER/WELLES. Un film con cui trovarsi in disaccordo, fra le opinioni difficilmente condivisibili di tutte e due le parti e l’acidità verbale con cui vengono esposte. Fino all’unico breve momento in cui Orson Welles uscirà dal personaggio, troppo inviperito di fronte all’ostinato e un (bel) po’ paraculo non schierarsi politico di Hopper, simbolo hippie eppure al contempo troppo impaurito dalla Guerra Fredda e dai residui maccartisti all’interno dell’FBI per dire realmente ciò che pensa, emblema della New Hollywood eppure «né Marx né John Wayne», non un reale combattente ma persona che «fa film». Fra le sigarette incenerite e le comparse, fra le dissertazioni su Viridiana e sul cinema italiano fra Fellini, Visconti e Antonioni, fra le false accuse e la famiglia, i due artisti si confrontano sul cinema e sulla vita, sulla politica e sul sesso, sui rispettivi progetti metacinematografici e sui modi di essere «personali». Da una parte chi vive delle emozioni riprese sul set, dall’altra il grande montatore. Da una parte chi ha visto L’avventura 7 volte, dall’altra chi ne denuncia molto al di là del suo pensiero la mancanza di ritmo. Da una parte chi si strugge per ogni taglio, dall’altra chi non ha alcun tipo di affetto per la pellicola e anzi detesta le proprie immagini e non vede l’ora di snellire il più possibile il girato. Da una parte il nuovo cinema e la facilità nel riuscire a farselo produrre, dall’altra il classico che da L’orgoglio degli Amberson non è mai più riuscito a lavorare con finanziamenti e tranquillità, e ha comunque sfornato infiniti capolavori. Da una parte la realtà con inserti di finzione di Dennis Hopper, dall’altra la finzione ma non troppo di Orson Welles/Jake Hannaford. Due mondi differenti che si confrontano come quattro anni prima avevano fatto Hitchcock e Truffaut. Ma qui non è il giovane a intervistare con rispetto il grande autore decano, è l’esatto opposto. Con l’obiettivo di vampirizzarlo, fagocitarlo, smascherarlo. È Orson Welles che rimane fuori dal campo, lasciando solo a Dennis Hopper l’onore, o meglio l’onere di chi perde malamente una battaglia dialettica, di emergere dalla grana pesante in bianco e nero. Eppure è sempre e solo Orson Welles il grande burattinaio, colui che mantiene sempre il punto e lo porta esattamente dove vuole arrivare, colui che in un mondo di nuovi registi che si credono Dio ancora sa cercare e trovare, da (niente affatto) umile artigiano, la magia che diventa cinema. Dennis Hopper racconta con sconcertante naturalezza di quella prima pistola comprata girando Easy Rider e limata nei suoi ingranaggi per trasformarla in mitra, mentre Orson Welles serafico gli ricorda che la rivoluzione forse si potrà fare anche con il cinema, ma servono prima la coscienza e l’organizzarsi delle persone. Dennis Hopper inizia apertamente a sviare i discorsi dicendo come l’amore sia doloroso e solo il sesso divertente, mentre Orson Welles riporta il dialogo sul romanticismo nel cinema, sulla drammatizzazione e sui sogni, sull’amore per i singoli spettatori ma la necessità di disprezzare il pubblico in quanto massa. Un confronto cha ha solo possibile vincitore, in cui la superiorità intellettuale e la brillantezza di Orson Welles sono talmente schiaccianti da far sembrare Hopper, altro autore di fondamentali capolavori, poco più che un miracolato capitato nel posto giusto al momento giusto, simbolo di una generazione e di conseguenza emblema della sua povertà di pensiero. Ritrovato e completato con inattaccabile filologia a mezzo secolo esatto dalle riprese, e presentato come evento speciale fuori concorso alla 77ma Mostra di Venezia, HOPPER/WELLES è un documento inestimabile sul confronto fra due generazioni di cinema americano e sul metodo di lavoro di Orson Welles, parte del progetto di The other side of the wind che ne diventa in qualche modo un controcampo, un completamento, una scheggia indipendente e folgorante. Un qualcosa che forse non sarebbe dovuto esistere, ma del quale è inspiegabile che si sia potuto fare a meno fino a oggi.

Marco Romagna

“Hopper/Welles” (2020)
130 min | Documentary | USA
Regista Orson Welles
Sceneggiatori N/A
Attori principali Dennis Hopper, Orson Welles, Janice Pennington, Glenn Jacobson
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

NOMADLAND (2020), di Chloé Zhao di Nicola Settis
CARELESS CRIME (2020), di Shahram Mokri di Marco Romagna
MANK (2020), di David Fincher di Nicola Settis
ZANKA CONTACT (2020), di Ismaël El Iraki di Bianca Montanaro
NEVER GONNA SNOW AGAIN (2020), di Małgorzata Szumowska e Michal Englert di Bianca Montanaro
IN BETWEEN DYING (2020), di Hilal Baydarov di Marco Romagna