Sono sempre anime straordinariamente pure, i protagonisti dei film del kazako Adilkhan Yerzhanov. Personaggi limpidi e sinceri, ingenui e gentili, dolci e poeticissimi. Gli unici ancora capaci di illudersi e di continuare a sognare, gli unici che ancora inseguono i palloncini e gli aquiloni, gli unici rimasti ancora intimamente buoni e realmente innocenti in un mondo irrimediabilmente cattivo, o per lo meno drammaticamente indifferente. Sono personaggi che sembrano atterrare soffici come piume sulla dura e polverosa steppa del Kazakistan direttamente dal mondo cinematografico di Takeshi Kitano, vittime delle crudeltà del mondo eppure in qualche modo al di sopra dalle crudeltà del mondo, troppo incontaminati per lasciarsi sporcare e con il cuore troppo tenero per lasciarselo indurire. Che si tratti di giovani e acculturate fanciulle accompagnate da grossolani amici d’infanzia, di poliziotti più e meno corrotti o, come nel caso di questo commovente Yellow cat presentato fra gli Orizzonti di Venezia77, di eterni bambini incapaci di crescere, la filmografia di Yerzhanov si compone di tasselli di un’umanità variegata ma sempre dolente e sognante, consapevole di essere con ogni probabilità una vittima sacrificale già designata eppure lo stesso ostinata nella ricerca di una via d’uscita onirica, di almeno un istante lirico e commovente, di un momento di felicità almeno apparente. Un’umanità in fuga dal mondo e da una società asfissiante nella sua corruzione e nella sua completa assenza di morale, costantemente minacciata da più parti e compressa in spirali di violenza, costantemente sospesa fra il coraggio e l’incoscienza di chi è determinato a vivere fino in fondo le proprie illusioni e la propria candida onestà.
Questa volta è Kermek, il protagonista. Un ladruncolo per fame dall’immaturità e dalla cinefilia sul confine dell’autismo, ossessionato da Frank Costello faccia d’angelo pur senza averne mai potuto vedere il magnifico finale e convinto di assomigliare ad Alain Delon del quale imita ogni mossa. Uno «scemo» cresciuto in orfanotrofio ed ex detenuto per taccheggio, ma in realtà incapace di fare davvero del male, tanto che, quando il boss mafioso locale pagherà la sua cauzione per costringerlo a entrare a far parte dei suoi scagnozzi e gli verrà messa in mano una pistola con cui giustiziare un debitore, inizieranno la sua ribellione e la sua fuga innestata sul sogno (im)possibile di affrancarsi dalla malavita, vivere, amare, costruire un cinema. Al suo fianco, conosciuta lungo il percorso, la puttana «pazza» Eva, magnifica fra le vecchie obese con cui si dilettano i mafiosi con la sua giovinezza lentigginosa e con i suoi boccoli rosso fuoco, altra anima dalla straordinaria e dolcissima purezza nelle sue danze solitarie e nei suoi esordi di follia. La loro fuga sarà una sorta di rilettura al contempo comica, tragica, lirica e romantica di Bonnie & Clyde o se si vuole delle Badlands malickiane, sempre pronti a rincorrersi e a giocare come bambini, sempre pronti a sognarsi insieme in quel cinema sulla montagna, sempre pronti a danzare su un tronco al tramonto, sempre pronti, un po’ come già nel sublime (non) volo in (non) aereo di The gentle indifference of the world, a sfruttare i bicchieri di vino dipinti su un muro per mimare il brindisi e illudersi insieme di un impossibile ricco banchetto. Lui e lei, uniti «come un albero e la pioggia», inseparabili e pronti a bastarsi a vicenda senza bisogno di altro o di altri. Ma sarà il mondo, ineluttabile, a continuare a cercare loro.
Adilkhan Yerzhanov continua così, lastricando di altri due mattoni la sua strada cinematografica di purezza e dolcezza umana, il suo contemporaneo percorso nella destrutturazione del genere. Il nume tutelare che guida la sua mano registica, come già detto, è ancora una volta Takeshi Kitano, ma in Yellow cat la strada che porta all’emergere dello spirito dell’autore giapponese attraverso la sincerità assoluta e la profonda umanità di mosche bianche in mezzo alla malavita è meno esplicita rispetto alle aperte citazioni di The gentle indifference of the world e di A dark, dark man, e in qualche modo ancor più teoricamente complessa. Perché parte da molto più lontano, il ‘kitanesimo’ di Yellow cat. Parte da una brillante commedia ironica e surreale che si avvicina piuttosto all’algida sornioneria di Aki Kaurismaki, e che solo progressivamente, fra il noir e il western, fra il gangster movie e il melodramma, fra il demenziale e la strabordante poetica, fra i dialoghi di Scorsese e la violenza di Melville, cambierà più volte toni e generi fino all’inevitabile tragedia. Un’immersione nelle forme in qualche modo metacinematografica, non tanto per le ripetute (re)citazioni di Taxi Driver e Casinò o per il fine ultimo dei protagonisti di edificare una sala, quanto per il dolce ragionare sul dispositivo giocando, proprio come i protagonisti giocano per dimenticare le ingiustizie, a ribaltarne ogni regola e declinazione. Dilatando i tempi e mescolando gli immaginari, scivolando fra i generi e modificandone la grammatica, riscrivendo il fellas movie e la fuga in un linguaggio al contempo comico, tragico e tenerissimo, fatto di inquadrature frontali e di (a)simmetrie, di campi lunghi sul paesaggio e di carrellate quasi impercettibili, del sole a picco sulla landa e dei saturi cromatismi degli abiti sgargianti nella vastità delle pianure.
Yerzhanov distrugge per ricostruire, dissacra per riconsacrare. Ci sono efferati criminali che si presentano in monopattino e altri che dopo un brutale omicidio lo commentano con una ridicola voce in falsetto, ci sono sparatorie in cui superare in altezza un container saltellando su un tappeto elastico, ci sono ventilatori che possono battere un’accetta e rugose matrone che gestiscono il bordello, e ci sono le mani insanguinate del killer ferito per non uccidere un innocente e diventare a propria volta killer. Ci sono poliziotti corrotti e altri che si eliminano a vicenda per errore o per vendetta, c’è una vecchia Kangoo scassata che perfino i bambini si fermano a deridere, e ci sono intere montagne di sacchetti da imparare ad aprire prima che nel negozio si formi la coda. Una serie di trovate spassose, di equivoci spiazzanti e di risposte surreali, che Yerzhanov innesta nei suoi tipici sguardi in cinemascope sugli orizzonti sterminati delle steppe in cui si muovono Kermek, Eva e, loro malgrado, l’intera corte dei miracoli al servizio del boss locale che li pressa e li insegue. Portando inevitabilmente, un incontro dopo l’altro, un capitolo dopo l’altro, l’ironia iniziale a diradarsi fino a quasi esaurirsi, man mano che la realtà inizia a scontrarsi con il sogno e a incrinarne progressivamente ogni certezza e ogni fiducia.
È proprio qui che il cineasta kazako, fra gli spunti teorici che riscrivono i generi e il dolce e progressivo passaggio al dramma della vicenda, fra le sublimi musiche elettroniche e i laceranti silenzi dei paesaggi, innesta il cuore più puro e genuino dei suoi personaggi, la loro insostenibile tenerezza, l’insondabile affetto che li lega, la loro assoluta sincerità. Quella che fa incrociare cavalli e aquiloni in una danza di libertà, quella che fa guardare al lato ludico della vita e donare quel poco che si possiede ai più bisognosi, quella che anche quando tutto è perduto, il cinema non esiste, i soldi sono finiti e i gangster stanno arrivando, ancora permette di giocare e di continuare a sognare. Basta uno schermo improvvisato piantato nel terreno della radura, basta un proiettore super8 giocattolo spento da tenere vicino, basta un giradischi, basta un ombrello rosso, basta un po’ di immaginazione, bastano due occhi a emozionarsi fino alle lacrime, e si può ancora cantare sotto la pioggia. Rimangono le mani che si intersecano per un’ultima volta, rimane quella tenda un tempo bianca e ora rossa di sangue, rimane la devastazione, rimane la commozione. Rimane l’ennesimo orizzonte vuoto e quieto, rimane l’elicottero che porterà via i corpi dei due sognatori. Vittime innocenti della crudeltà umana, proprio come quei “gatti gialli” – Yellow cat – cosparsi di kerosene e ferocia, incendiati e usati per disboscare con la loro ultima corsa disperata in fiamme nella foresta.
Marco Romagna