5 Settembre 2020 -

SPORTIN’ LIFE (2020)
di Abel Ferrara

Nel cinema a volte, forse ancor più che nella vita, bisogna saper improvvisare. Soprattutto quando, durante la realizzazione di un film, da un giorno all’altro cambia radicalmente il mondo. Nasce come un documentario sull’atto stesso di realizzare un documentario Sportin’ life, ultima sontuosa fatica di Abel Ferrara presentata fuori concorso a Venezia77 e primo vero grande film della Mostra. Nasce come una dissertazione sul concetto di regia, su come la vita personale e l’intima riflessione dell’autore siano imprescindibili in ogni percorso artistico, ma anche su come la realizzazione di un film, così come quella di un concerto, sia in realtà un processo collettivo in cui ogni collaboratore fidato si mette a disposizione e si impegna al massimo per migliorare l’idea originaria. Nel cinema però, come si diceva, a volte è necessario ricorrere all’improvvisazione, ridiscutere, ridiscutersi, lasciarsi trascinare dal momento e dal destino. Del resto, poco più di una settimana dopo l’ultima Berlinale inizio delle riprese con la doppia presentazione teutonica di Siberia al Festival e di Tommaso nelle sale della città, tutti noi siamo stati costretti ad adottare nuovi e dolorosi punti di vista, ad allargare gli orizzonti dal chiuso di una casa, a riconsiderare non una ma mille volte, fra la pandemia di Covid19 e le proteste Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd, sia gli eventi che gli schermi televisivi hanno portato di fronte ai nostri occhi attoniti e impotenti sia la nostra personale introspezione esistenziale. Tanto più per un newyorchese residente – e ovviamente bloccato – a Roma, che dall’emergenza italiana aveva perfettamente chiaro che cosa sarebbe diventata di lì a pochi giorni l’epidemia di Coronavirus negli Stati Uniti orrendamente governati da Donald Trump, e che da americano del Bronx ha sempre saputo che i ripetuti abusi in divisa e il razzismo ancora serpeggiante prima o poi avrebbero inevitabilmente portato la bomba sociale alla sua detonazione. «Un mondo-altro non si può spiegare come questo», dice apertamente Ferrara, ed è così che Sportin’ life, senza mai tradire la sua missione iniziale di documentare il documentare ma anzi innervandola di un vortice di stratificazioni, è progressivamente e inevitabilmente diventato (anche) altro, una lucidissima e profonda riflessione sul presente, uno squarcio personalissimo e intenso sulla vita e sui pensieri di un artista, un monumentale instant movie che, attraverso gli occhi meccanici di chi è vicino – del resto ormai tutto è telecamera, ogni cellulare è un potenziale sguardo e la rete Internet è la sua diffusione istantanea in tutto il mondo – si interroga sulle assurdità degli ultimi mesi e sul senso stesso di fare cinema anche, e forse soprattutto, in questi mesi. Un film che in qualche modo si è fatto da solo e in solitudine, guardando forzatamente da lontano e soffrendo per la lontananza, come unico modo possibile per parlare davvero di cosa voglia dire cercare, filmare e montare la realtà.

Prodotto da Yves Saint Laurent lasciando totale carta bianca al regista, Sportin’ life è l’ennesima incursione di Abel Ferrara nel suo mondo in cui vita, famiglia, amici, idee, preoccupazioni, fantasmi, cinema, musica e lavoro sono da sempre una cosa sola. C’è ovviamente la moglie attrice e cantante Cristina Chiriac, c’è ovviamente la figlioletta Anna ormai presente in ogni film, e c’è quasi altrettanto ovviamente Willem Defoe, padrino di battesimo della bambina e oramai da molti anni amico, vicino di casa, attore feticcio e alter ego sullo schermo di Ferrara. Un «agente del regista dentro l’inquadratura», come ama definirsi, che in qualche modo co-dirige i film realizzati insieme con il confronto continuo e con la totale fiducia reciproca, con le improvvisazioni sul set e con i consigli elargiti per sistemare le luci o per definire un quadro. Una presenza essenziale di cui fidarsi, proprio come nello specifico di questo lavoro realizzato in gran parte fra quarantena e distanziamento è stato (non) presenza essenziale di cui il Ferrara regista si è fidato il montatore Leonardo Bianchi, e come da sempre per il Ferrara musicista è presenza essenziale di cui fidarsi, collaboratore storico e fondamentale co-autore il fido tastierista Joe Delia, da sempre al suo fianco sul palco e in sala d’incisione, quando è ora di esibirsi dal vivo come quando è ora di musicare un film. Si parte dalle interviste concesse a Berlino, dai concerti tenuti in quei giorni in città, dalla consapevolezza che quella settimana festivaliera, per molti versi, è stata l’ultima settimana del mondo, o per lo meno di un mondo che fra mascherine, distanze, tamponi, controlli della temperatura e limitazioni dei viaggi non si sa ancora se e quando potrà realmente tornare. Le immagini giunte in questi ultimi assurdi mesi sui teleschermi si intrecciano con gli home movies girati oggi al cellulare e con il cinema passato dell’autore, con la conferenza stampa della Berlinale e con YouTube, mentre sequenze vecchie magari di sei o venticinque anni (l’intervista interpretata da Willem Defoe in apertura di Pasolini con il suo «morirei se non facessi film», o i monologhi tossici e confusi di Christopher Walken in The Addiction), proprio come i testi delle canzoni (su tutte, ma non solo, The Bad Lieutenant suonata dalla band di Ferrara, che con le sue dipendenze e i suoi stupri diventa colonna sonora del Papa in preghiera in una San Pietro surreale e deserta), sembrano quasi scritti ora per commentare la quarantena, le corsie degli ospedali, i troppi morti, le fosse comuni, gli scontri di piazza, le barricate, quel maledetto ginocchio sulla schiena di Floyd – «I can’t breathe». Un dialogo fra passato e presente con cui cercare di capire il futuro, un bilancio da cui partire per una nuova dichiarazione programmatica.

Ferrara, nel tornare all’origine della sua creatività, passa in rassegna le sue fonti di ispirazione fra Bo Diddley e Del Shannon intrappolati nella saturazione arrossita di qualche vecchio 16mm e Cristina musa di ogni giorno, documenta le macchine da presa e i microfoni necessari per girare (anche) un documentario, prende in mano il cellulare per filmare personalmente una domanda particolarmente intelligente da parte di un accreditato berlinese, e con lo stesso cellulare si specchia di giorno e di notte nelle vetrine chiuse di una città deserta mentre la testa era inevitabilmente da tutt’altra parte, dall’altro lato dell’Oceano, su un diverso fuso orario. Del resto Ferrara ama visceralmente Roma, ma non riesce ancora a sentirla del tutto “sua”, tanto che solo pochi giorni prima del lockdown, ancora in una Berlino affollata e (quasi) senza mascherine, era stato lo stesso Defoe a giocare con un’immagine del regista, prendendolo e prendendosi in giro per quell’italiano ancora stentato con il quale tutti e due devono fare i conti. Roma, in Sportin’ life, è in un certo senso una gabbia, uno sguardo dal terrazzo alle ambulanze in strada e poi un movimento verso la portafinestra dietro cui la piccola Anna capisce e piange, ma è anche una liberazione, una sorta di assicurazione per rimanere – come accade ormai da 7 anni – sobrio, la sede dello studio di montaggio in cui continuare a «pensare più al ritmo che alla storia» e un luogo in qualche modo protetto dal quale continuare a riflettere su New York, su come anche il non certo brillante George W Bush in tempi non sospetti fosse arrivato alla consapevolezza della necessità di un reale piano pandemico per non trovarsi in crisi, e su come il Covid in qualche modo abbia insegnato che ciò che accade a una persona può condizionare un’altra persona, che bisogna imparare a comportarsi sempre agendo per il bene comune, che a volte è necessario fermarsi (o non fermarsi) per fare un bilancio e riflettere. Le frasi più sconcertanti di Trump a negare un’epidemia ormai evidente appaiono nelle caselle del calendario di marzo e aprile, mentre Sportin’ life emerge «un respiro alla volta, un’inquadratura alla volta» fra la New York “romana” di Go go tales e gli interventi nel Senato americano, fra il pesce parlante di Siberia (con tanto di Willem Defoe che ne declama con voce shakespeariana le più feroci stroncature) e la sua presentazione al Palast, fra la fine del mondo di 4:44 e le infermiere in lacrime, fra le sortite in auto di Pasolini la penna già di Bob Dylan che Defoe tiene come una reliquia, fra l’autobiografismo di Tommaso e le domande di Albert Serra spettatore entusiasta in sala, fra le ombre di Addiction e le risate di Mark Peranson pensando a una vecchia stroncatura. La macchina da presa vaga fra le incursioni nel rock di Ferrara e di tutto il suo microcosmo, perde e ritrova i suoi soggetti sul palco e sui divanetti degli hotel berlinesi, soli in strada in una Roma senza traffico o invitati a una delle ultime feste concesse prima dell’apocalisse. La pandemia ha portato via tutto quello che amiamo: gli stadi, i cinema, gli attori e i soldi che in qualche modo torneranno, gli amici perduti che non potranno tornare. Di certo, però, non ha portato via le cose da dire, l’ispirazione, la lucidità politica e la spiritualità dolente e profondissima di Abel Ferrara. Da Fauci a George Floyd, da Forest Whitaker a Willem Defoe, da Who do you love? fino a I know you want to kill me, dalla famiglia all’essere artista. Un bilancio, un’analisi del cinema, della musica e del mondo, una vertigine di 65 minuti. Densa, teorica, intima, personalissima, limpida, potente, spietata. Profondamente sofferta. Semplicemente magnifica.

Marco Romagna

“Sportin' Life” (2020)
65 min | Documentary | Italy
Regista Abel Ferrara
Sceneggiatori N/A
Attori principali Willem Dafoe, Abel Ferrara, Paul Hipp, Cristina Chiriac
IMDb Rating N/A

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