Nello scrivere di Padrenostro, ci eravamo posti un quesito, la cui risposta è impossibile da catturare: cosa rende cinema il cinema, cosa rende un film un film, e soprattutto cosa un film dovrebbe fare. È una domanda che è difficile non porsi, soprattutto di fronte a opere, come si suol dire, ‘che fanno parlare di sé’; trattasi del contesto umano di discussione tra punti di vista in cui la soggettività dello spettatore è capace di cambiare radicalmente l’immagine e l’idea del film stesso, e quindi, in fondo, la storia del cinema, il perché ci piace sederci al buio a subire suoni e segnali visivi, alla ricerca di un’emotività, che cambia di persona in persona. È il tipo di perplessità che domina gli occhi e i pensieri del pubblico dei festival del cinema, e in un mondo come quello delle proiezioni al Lido per la Biennale, in cui troppo spesso è difficile orientarsi, la perplessità regna sovrana, e non esiste un territorio condiviso in cui ogni film è film, come dovrebbe essere superati i preconcetti pseudo-intellettuali costituiti dalle barriere interiori e dai limiti degli spettatori. Questo anche perché ci sono persone che pensano che tra autoriale e ‘di qualità’ ci sia un’equivalenza quasi imprescindibile, perché la profondità sembra garanzia di intelligenza e l’impostazione per il grande pubblico sembra sinonimo di idiozia – perché il cinema da festival è un altro mondo, ed è costante la pressante urgenza di professare una superiorità rispetto al modo “normale” di vedere i film, che pure sta cambiando con la radicale evoluzione e semplificazione dei mezzi di distribuzione. Pieces of a woman, che ha tra i suoi produttori esecutivi Scorsese, sembra adeguarsi a questo panorama in perpetua metamorfosi, è sempre al limite, non tra “bello” e “brutto”, che sono aggettivi che non ci concernono, bensì tra queste due sponde diversificate da presunti gradi di serietà, che cercare di definire ulteriormente a parole sarebbe forse fallimentare. Quello che intendiamo dire è che discernere uno sguardo specifico in Pieces of a woman sarebbe un errore, o meglio, cercare di inquadrare l’ottavo lungometraggio (primo con produzione internazionale) di Mundruczó in un’ottica puramente intellettuale o immaginandolo strettamente come un lavoro per il grande pubblico renderebbe futile la ricerca di quello che Pieces of a woman rappresenta a livello di pensiero e testimonianza nello sfuggente grande ordine delle cose.
Il film alterna un approccio strettamente europeo a uno classico americano, due sguardi che, nel raccontare drammi sociali, come quello al centro dell’intreccio, adoperano tendenzialmente due approcci diversi: il cinema americano odierno tenta di raccontare la vita con l’espediente della pura rappresentazione, applicare la voce del cinema canonico a personaggi e situazioni che i classici non avrebbero mai raccontato; il cinema europeo osserva da lontano, non tanto per dimostrare un distacco (al di là dei tipici registi nichilisti odierni, la maggior parte dei quali sono greci) quanto per cercare una commistione tra oggettività e verità nello sguardo e un’emotività nel particolare. Pieces of a woman è, difatti, un’opera di rappresentazione individualista in classica verve statunitense, e forse è per questo che ad alcuni ha fatto storcere il naso, o forse è perché, nell’applicarsi a raccontare l’esistenza della sua protagonista con quest’approccio, Mundruczó non abbandona certi stilemi presi dalle sue esperienze col teatro, con lunghe riprese a tratti anche asettiche che replicano con precisione i ritmi della realtà, senza schierarsi né decidere ove sta la ragione e ove la follia. I dialoghi si sovrappongono, come nei migliori script di Noach Baumbach, per restituire un naturalismo drastico, spesso pesante e disturbante, i cui tempi sono rispettati ed estremizzati, spesso con piani sequenza vertiginosi. L’inizio, un’inquadratura movimentatissima di mezz’ora che segue la protagonista durante il parto, è vicino alle prolisse improvvisazioni teatrali in Out 1 (1971) di Rivette, o alle macrosequenze caotiche di dialogo in Volti (1968) e Mariti (1970) di Cassavetes. La protagonista Vanessa Kirby è forse la prima vera contendente per la Coppa Volpi per l’interpretazione femminile, e il suo andirivieni sensoriale tra malattia e sanità, tra dolore e pace dei sensi, nel lungo piano sequenza iniziale, è uno dei più impressionanti momenti di recitazione visti al Lido negli ultimi anni. Persino chi di fronte ai film si disinteressa della recitazione dovrebbe riconoscere la forza del prologo, una sequenza tesissima e isterica, una delle più realistiche e brutali scene di parto mai viste in un’opera di finzione.
Pieces of a woman è stato scritto da Kata Weber, attrice ungherese che ha anche collaborato alla scrittura di alcuni tra i film precedenti di Mundruczó, su tutti il suo più celebre, il tributo a Samuel Fuller White God (2014), ed è innanzitutto e soprattutto una testimonianza di un’interiorità femminile universale, dall’interno – senza il contesto sociale, U.S.A. o Ungheria poco cambierebbe. Il regista si presta perlopiù al servizio di creare immagini, dare forma visiva alle situazioni inscenate, e caratterizzare come la recitazione straripante e intensissima di tutto il cast possa coniugarsi bene con il lavoro di rappresentazione del film. C’è uno schiacciante realismo di scrittura nella caratterizzazione dei personaggi, ognuno contemporaneamente colpevole e vittima, ognuno capace di compiere errori e danni agli altri ma ognuno meritevole di una fuga o una redenzione o una possibilità al di fuori del proprio inferno personale; la ricerca di una verità etica univoca è messa in discussione, e l’assenza di una chiarezza morale fa da motore e cornice anche nel doppio, triplo finale, che è retoricissimo, anche prevedibile, e colmo di cliché da film giuridico hollywoodiano. L’irrealtà è compensata dal contenuto dei dialoghi e delle azioni inscenate, che propongono un racconto di vitalità, di ricerca di un futuro di cui innamorarsi invece che di un passato di cui pentirsi. Ogni frazione/sequenza del film è accompagnata da una data, con una linearità che va avanti raccontando un giorno per ogni mese da settembre ad aprile, dall’autunno del lutto alla primavera della ricerca di una rinascita, di una speranza, di una linfa vitale. Ci sono un’incredibile colonna sonora di Howard Shore, una scena di amplesso con Shia LaBeouf che sembra una scena di stupro (o viceversa, il giudizio non appartiene a Mundruczó ma appunto giustamente allo spettatore) e sballa le convenzioni della messinscena dell’erotismo, dialoghi ‘mumblecore’ che degenerano in monologhi di stampo bergmaniano (il migliore lo porta sulla scena la grandissima Ellen Burstyn), e un commovente momento in cui la “nascita” di una foto in camera oscura richiama, replica e sostituisce la nascita di un essere umano che invece non ce l’ha fatta. L’impalcatura dell’esistenza, il rapporto tra individuale e totale, traballa, come i ponti dei legami umani, che vanno bruciati per trovare una nuova vita, un’allegoria semplice, forse banale, ma anche per questo totalmente comprensibile, non fugace ma omnicomprensiva. Ma ogni ponte in quanto bruciato deve essere stato distrutto, e nella lode all’esistenza terrestre, che forse, almeno per Mundruczó, dovrebbe essere la base di ogni racconto cinematografico, l’importante è che prima il ponte venga costruito. Che prima venga costruito un rapporto umano, un volto, una reazione, un appello all’esistenza di un senso che è la vita stessa. Pieces of a woman è un grande film di attori, che i critici e gli appassionati spesso dimenticano, e di realtà, sì, una realtà anche palesemente finta, ma la cui rievocazione sembra sempre necessaria. È un film ibrido, e un’invocazione di speranza radicale più coraggiosa di quel che appare. Anche in questo sta il cinema: nei tentativi di rappresentare ciò che non si può mettere in scena. E se non si usa l’astrattismo, l’approccio di Mundruczó è perlomeno rivelatorio di una vitalità che trascende i confini prescritti di cosa è una finzione, un personaggio, un film, un attore, una verità umana, argomenti vaghi, mondi e caratteristiche su cui si può ancora dibattere. E se non avessimo niente su cui discutere animatamente, forse non avrebbe più senso innamorarci del buio della sala.
Nicola Settis