2 Settembre 2020 -

77ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica_02-12 Settembre 2020_Presentazione

«Si poteva non fare la Mostra? Sì, certo. Si doveva evitare di farla? Forse… Ma per noi la risposta giusta è: non si poteva non farla». Parla più che mai chiaro Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, alla vigilia dell’edizione numero 77. Quell’edizione che, nell’anno di un’epidemia capace di cancellare in un colpo di spugna colossi come il Festival di Cannes, gli Europei di calcio e le Olimpiadi, nessuno si sarebbe mai sognato di dare per scontata, e che invece oggi comincia regolarmente, in presenza, di fronte ai consueti grandi schermi del Lido di Venezia. Certo, sarà un’edizione per molti versi surreale, necessariamente riplasmata in rispetto delle norme anticontagio con il numero di accrediti giocoforza rivisto verso il basso (ma comunque intorno alle 7000 unità, non certo pochissimi) e con le ripetute misurazioni della temperatura ad affiancare i controlli antiterrorismo, con la pretesa di ripetuti tamponi per chiunque arrivi da fuori Schengen e con il vincolo della mascherina perenne in sala e in ogni area – anche esterna – della Mostra. Nelle sale la metà esatta delle poltrone rimarrà libera al fine di garantire il distanziamento sociale, in sala stampa sono stati eliminati i computer fissi potenziali veicoli di contagio, e il tracciamento di tutti sarà ad ogni modo garantito dall’obbligo di prenotare il posto al cinema (con, va detto, un sistema inutilmente macchinoso e un supporto informatico che ha già avuto modo di dimostrare ampiamente la sua inadeguatezza) per ogni singola proiezione. Dopo i primi ‘piccoli’ (per numeri, non certo per qualità del lavoro) Festival che si sono tenuti nelle ultime settimane fra Pesaro, Trento, Marsiglia, Bari e Bologna, la Mostra è il primo grande evento di massa dopo il grande stop del Covid, e quindi il simbolo della ripartenza, la (non certo per caso veneziana) Fenice che ancora una volta risorge portando con sé in volo tutto il mondo del cinema. Con il coraggio, a pandemia attualmente ben monitorata e sotto controllo ma tutto fuorché finita, di prendersi un rischio, e di prenderselo consapevoli di avere gli occhi di tutto il mondo piantati addosso. Temerari, senza dubbio, e inevitabilmente in bilico come gli acrobati che campeggiano sul manifesto, ma di certo non irresponsabili. Consci di essere un fondamentale banco di prova, di non poter sbagliare, di potersi rivelare ancora una volta l’esempio da seguire. Di avere un ben preciso lavoro da svolgere. Perché era importantissimo che, pur con tutte le precauzioni e le cautele del caso, questa edizione si tenesse, e che si tenesse fisicamente, nelle sale, di fronte a un pubblico in carne ed ossa. Non avrebbe avuto alcun senso cedere alle pericolose sirene dell’online alle quali tante (troppe) kermesse hanno già dovuto arrendersi in quest’anno ben oltre i confini dell’assurdo. Il cinema è grande schermo e visione collettiva, è buio, è condivisione, è concentrazione, è flusso ininterrotto, e vedere un film a casa, pur con i migliori mezzi possibili, non sarà mai guardarlo come solo la sala per cui è concepito permette di fare. Ribadire con forza questo concetto, Venezia lo sa bene, è fra le principali funzioni di ogni evento cinematografico, il cui lavoro è mettersi al servizio del cinema, lavorare per il cinema, e non certo al contrario usarlo e sfruttarlo (magari appiccicando come Frémaux improbabili bollini “Cannes2020” ai film di un Festival mai tenutosi per stabilire su di loro la primogenitura e portarli così via a kermesse che avrebbero potuto farli realmente vedere) con il solo fine di misurare la propria grandezza e la propria potenza.

Già, Cannes, quel Festival di lustrini con cui per troppi anni la Venezia di Barbera ha cercato di competere. Vincendo in almeno tre o quattro occasioni la sfida e trovando grandissimi film, ma anche – paradossalmente – il suo più grosso limite di sguardo. Perché Venezia non è un ‘Festival’, né deve esserlo. Venezia è la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, e quindi una mostra d’arte organizzata all’interno delle ramificazioni della Biennale. Il suo lavoro non deve essere quello di portare i film che vinceranno gli Oscar e faranno i maggiori incassi – o meglio, se ci sono anche quelli tanto di guadagnato, ma non devono essere il punto. Il lavoro di Venezia dovrebbe sempre essere quello di allargare il più possibile lo sguardo e gli orizzonti, di dare visibilità alle zone geografiche e alle cinematografie meno battute dal mainstream, di fare ricerca vera, sul campo, ed esibire le opere pensate e realizzate in giro per il mondo. Una vocazione che dopo i gloriosi anni di Marco Müller sembrava ormai perduta per strada, e che invece in quest’anno anomalo, forse per caso o più probabilmente perché obbligati dalle tante defezioni delle produzioni statunitensi e francesi, torna almeno sulla carta sulle pagine del programma di una Mostra che torna finalmente a fare la Mostra. La prima dopo tanti, troppi anni di (pur buoni, specialmente grazie all’apporto di Giulia D’Agnolo Vallan nella selezione degli americani) Festival. Non tanto con il concorso, che al netto di tre o quattro nomi è sulla carta (e comprensibilmente, con tutte le produzioni stoppate e i mille problemi di questo 2020) non particolarmente irresistibile, quanto con una sezione Orizzonti che torna a osare e batte realmente ogni zona geografica per proporre opere in larga parte prime e seconde. Certo, sarà un anno anomalo, infarcito di cinema italiano dalla qualità inevitabilmente altalenante e di necessari compromessi, ma forse proprio per questo, dove compromesso non serve e non c’è, appare come il più cinefilo da molti anni a questa parte, e quindi paradossalmente il più stimolante. Molto di più rispetto ai programmi dei più quotati anni scorsi. Quest’anno al Lido non ci sarà da premiare alcun Joker, non ci saranno forme dell’acqua e saranno ben poche anche le star internazionali. Ma non c’è alcun motivo per storcere il naso, perché ci sarà ancora più passione. Sarà rappresentato il Kazakistan, sarà rappresentato l’Azerbaijan, e così l’India, la Palestina, l’Iran, la Costa d’Avorio, la Lituania, il Vietnam, fino al Qatar. Con Kiyoshi Kurosawa e Hilal Baydarov a competere per il Leone d’Oro, e con i vari Adilkhan Yerzhanov, Abel Ferrara, Alex Gibney, Frederick Wiseman, Salvatore Mereu, Lav Diaz, Amos Gitai, Quentin Dupieux, Ann Hui, Massimo D’Anolfi/Martina Parenti, Uberto Pasolini, Luca Ferri e Bruce La Bruce a illuminare gli schermi da tutte le sezioni. Con i fratelli De Serio, con Mona Fastvold, con Gia Coppola, con Alice Rohrwacher con JR, con Alex De La Iglesia alle prese con una serie TV e con un corto di Andrej Khrzhanovsky, uno di Mandico, uno di Almodòvar e la chicca Hopper/Welles, finalmente montata e pronta per essere mostrata. Certo, ci sarà la mascherina da tenere davanti alla faccia, ci saranno i posti da prenotare, ci saranno le file distanziate, ci sarà un muro simbolicamente orribile di fronte al red carpet per scongiurare assembramenti. Ma c’è la Mostra, finalmente. Qui e ora. Dopo sette mesi, semplicemente l’ossigeno.

Marco Romagna

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