28 Agosto 2020 -

HI_8 [TRANSFERT ON FILE] (2020)
di Erik Negro

«Sembrerebbe dunque che all’origine dell’occhio ci sia l’archetipo biologico di una lacrima…»
Alberto Grifi, Transfert per camera verso Virulentia

Una premessa fondamentale, a scanso di possibili equivoci e polemiche. Questo articolo non può che essere redatto e pubblicato in un evidente stato di conflitto di interessi. È ovvio che lo sia, per forza, senza vie di scampo. Un po’ per il ruolo centrale che Erik Negro ha e ha sempre avuto sulle pagine di questa rivista sin da prima che io mi decidessi a fondarla, e un po’ per la lunga e sincera amicizia che ci lega sin dai tempi in cui entrambi avevamo una quantità ormai impensabile di capelli, e con l’eccessivo entusiasmo di chi è poco più che adolescente iniziavamo a viaggiare in lungo e in largo per nutrirci di immagini sugli schermi. È anche vero però che, ben oltre la sua straordinaria conoscenza del cinema, uno dei principali motivi per cui siamo così amici e per cui Erik è da sempre caporedattore di CineLapsus è proprio la sua sensibilità. Una sensibilità rara e purissima nel ragionare per immagini, che da sempre diventa per lui una sorta di sesto senso quando è spettatore e critico cinematografico in sala, e che quando si cala nel ruolo di regista porta anche i dieci minuti di un esperimento come Hi_8 [Transfert on file], progetto dichiaratamente meno ambizioso del fiume “verticale” di ricordi di Non c’è nessuna Dark Side o del suo “mostruoso” e ideale controcampo di dieci ore attualmente in lavorazione, a rivelarsi come un film talentuoso e assolutamente fuori dall’ordinario, che non solo merita ampiamente una vetrina prestigiosa quanto il Concorso 2020 di un Festival storico e importante come la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, ma finisce (anche se questo, è vero, non dovrei poter essere io a dirlo) per dimostrarsi fra i titoli più interessanti della – buonissima e senza dubbio molto coerente – selezione.
Hi_8 [Transfert on file] è la luce, è il buio, è la luna, è il sole, è di nuovo la luna. Hi_8 [Transfert on file] è un giorno, è un accendino, è il rosso, è il blu, è un lampione giallastro sul paesello, è un bagliore fra i rami, è un istante mai registrato, è l’imperfezione delle lenti e del nastro. È la sgranatura del pixel, è il colore sbavato, è un otturatore abbagliato che brucia e buca i bianchi, è la piccola piega che accartoccia il nastro. È la distorsione dello zoom che da ottico passa a digitale, è l’aberrazione dell’immagine, è l’illusione ottica di una corona rossastra che non esiste, è la polvere residua su un vecchio nastro rimasto in macchina per oltre 20 anni, è il concreto della materia che tende alla pura astrazione ipnotica di un’immagine che fra fisico e numerico cerca e trova l’invisibile. Hi_8 [Transfert on file] sono foglie e sono tremolii, sono repentini cambi d’ottica e sono righe d’interlacciamento, sono forme e luci che diventano altro nelle illusioni di un occhio meccanico. È un ritorno al passato per guardare all’avanguardia futura, è la ricerca di un medium con cui esprimersi, è uno studio sul mezzo e sulle sue possibili forme linguistiche. Ma soprattutto è il low-fi di un fondamentale punto di passaggio, quello fra l’analogico della pellicola e la praticità dematerializzata del file digitale, alla ricerca di un’analoga eppure diversissima granulosità. Non “pronta”, ma da trasferire su file. Tanto che sta in qualche modo tutto nel “transfert” del titolo, l’esperimento alla base del film. Un Transfert che, “per camera verso Virulentia”, già nel ’67 fu di Alberto Grifi, rivoluzionario pioniere del nastro magnetico sin da metà anni Settanta, e che ora, nel momento di spingersi fino a “on file”, diventa una ben precisa citazione critica e un omaggio, in qualche modo l’accettazione di un altro transfert per continuare a cercare quella stessa umanissima lacrima sul fondo dell’occhio. Tornando a una tecnologia amatoriale ormai vecchia di oltre trent’anni, Erik (ri)scopre e (ri)trova la materia del nastro magnetico di una vecchia Hi8 come ponte fra un mondo e l’altro, fra un cinema e l’altro, fra un’immagine e l’altra. Dalla grana dell’emulsione alla sgranatura ancora analogica del nastro anni Novanta, fino all’ultimo e definitivo transfert, on file, con la digitalizzazione che lo rende codice binario da far brillare sullo schermo.

Una digitalizzazione che a sua volta non poteva essere altro che la cassetta così com’era, montata direttamente in macchina e semplicemente ricatturata con il pc, senza intervenire in alcun modo, titoli a parte, in postproduzione. Senza nemmeno aggiungere, dopo la babele di musica e parole di Non c’è nessuna Dark Side, alcun suono al completo e totale mutismo del microfono non più funzionante. Soltanto le parole di Neil Armstrong al momento del celeberrimo «Land of Tranquillity here, the Eagle is landing» romperanno l’assoluto silenzio, ma giungeranno non certo per caso solo quando ormai Hi_8 [Transfert on file] è praticamente terminato, come a voler ritrovare in una voce e in un istante, dopo la pura astrazione, il calore dell’umanità. Una scelta radicale, che riducendo le distanze fra i corpi astrali, fra l’analogico e il digitale, fra la materia e il numero, racchiude tutto il senso del lavoro di Erik: proprio come Grifi, con l’utilizzo di lenti distorcenti, prismi e specchi ottici, aveva filmato nel suo Transfert per camera verso Virulentia il teatro di Aldo Braibanti cercando direttamente in macchina una visione inedita eppure antichissima, come se fosse una percezione naturale delle altre specie animali, Erik lavora direttamente sulla vecchia videocamera Hi8 alla ricerca di un nuovo ma al contempo antico modo di vedere, di accostare, di percepire anche ciò che sfugge. Esplora le potenzialità e i difetti della macchina, compresi la sua sopraggiunta sordità e il suo sopraggiunto mutismo, senza alterarla con alcuna tecnologia più moderna e avanzata, ma semplicemente lavorando con i mezzi a disposizione da decenni (anzi, se possibile con qualcosa in meno) fino a trovarne un utilizzo ipnotico e originalissimo, fino a capire con quale tipo di scossoni e di ripassaggi fare inceppare il vecchio nastro sporco e parzialmente smagnetizzato negli ingranaggi per trovare una nuova e disturbata fluidità, fino a trasformare le imperfezioni di un contorno e della polvere nel puro inintelligibile, nella macchia di colore, nel movimento, nel disvelarsi dell’impercettibile. Dal concreto all’astratto e ritorno, e poi dall’analogico al digitale, senza mai perdere di vista l’umano.
Si potrebbe definire, con un ossimoro, “effetto sorpresa calcolato”: provocare scientemente un errore tecnico per poi poterne vedere solo a posteriori l’effetto sullo schermo, e così in qualche modo controllare la perdita di controllo. Un’utopia, per molti versi, ovvero il fine etico ed estetico al quale votarsi sempre, che si tratti di dodici anni di vita o dei racconti dei Partigiani, che si tratti di luoghi pregni di memoria o di eventi sportivi, che si tratti di visioni o di atti creativi. Che si tratti di cercare un punto di sintesi fra analogico e digitale come se fosse un personalissimo viaggio fra due mondi, dalla Terra alla Luna, magari fino a quella sua faccia nascosta che forse a ben vedere nient’altro è che una metafora dell’immaginario e della sua granulosità viva, pulsante, disturbata. Un mare di rocce, o forse di pixel, dentro il quale immergere lo zoom digitale e perdersi, ancora una volta. Ciò che (non) vediamo, ma che è sempre stato lì oltre le nuvole. Il rinnovarsi  su uno schermo dell’eterna fisicità della materia, fra la luce riflessa dalla superficie lunare e lo schermo che la riproduce, fra il nastro che l’ha catturata e il file che la restituisce. Sembra quasi di poterla toccare, eppure è un’immagine che da analogica è già diventata numerica, è già saltata nel digitale, ha già posato il piede sulla sua Luna. «Un piccolo passo per un uomo, un balzo da gigante per l’umanità», avrebbe forse detto qualcuno.

Marco Romagna

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