Tra i più importanti film del genere wuxia (in italiano traducibile approssimativamente con: cappa e spada), A touch of Zen di King Hu, nome d’arte di Hu Jinquan, con le sue tre ore di durata, è stata l’ultima proiezione al Cinema Arlecchino del festival Cinema Ritrovato di Bologna. Il nuovo restauro in digitale del film, vincitore del Grande Premio Tecnico a Cannes 1971, ne mostra ancora di più la potenza espressiva, mostrando epici combattimenti il cui stile di regia è forse un po’ datato, ma il cui impatto, rapportato alla data d’uscita, è indimenticabile. Questo anche per un paio di originalità nella stessa premessa della trama: il protagonista maschile non combatte, il personaggio eroico positivo principale è una donna, e la risoluzione del conflitto è trascendente, non materiale.
È diverso da Dragon Gate Inn (1967), film visto al festival del Cinema Ritrovato dell’anno scorso diretto dallo stesso regista e forse ancora più di culto per la storia del cinema in mandarino, principalmente per come King Hu si rapporta all’epopea e all’umorismo: Dragon Gate Inn ha i ritmi e il brio di un vero e proprio western orientale, mentre A touch of Zen mostra un tipo di epica che per il ’71 si poteva davvero definire “nuovo”. L’autore si dedica alla costituzione di un’epos che si basa su se stesso, su generi non sviluppati in Occidente e che quindi si autorinnova in se stesso tramite creative formule tanto di eleganza quanto di follia (estetica e umoristica). Entrambe queste componenti vanno viste come estremamente innovative per il futuro di un genere che, pur essendo nato negli anni ’20 (con già una lunga storia di letteratura alle proprie spalle), ha davvero trovato la propria vera sbocciatura con King Hu e altri autori come Chang Cheh, Yueh Feng, Joseph Kuo, Jimmy Wang, prima di essere maggiormente riconosciuto a livello nazionale con gli ormai occidentalizzati Ang Lee (La tigre e il dragone, 2000) e Zhang Yimou (Hero, 2002). La raffinatezza con cui King Hu mostra le ambientazioni all’aperto cristallizandole nel tempo, quasi come per creare una memoria di una cultura, finisce per non essere solo un effetto d’atmosfera, ma anche un doppio risvolto narrativo e religioso: narrativo per come gli spazi aperti e gli spazi chiusi svolgono diversamente il proprio ruolo geografico nelle scene d’azione, con lo spazio aperto che crea impedimenti che rinchiudono e intrappolano e lo spazio chiuso che è invece più atto ad inseguimenti in stile nascondino; religioso per l’indubbia importanza del ruolo del Buddhismo nell’intero svolgersi dell’opera, con un risvolto spirituale improvviso verso la metà del film, che nel finale che finisce per aumentare la sensazione di epicità che il lungometraggio già sprigiona con la sua maestosa durata. Ed è soprattutto qui che entra in scena la follia: i simbolismi buddhisti finiscono per prendere una piega astratta e surreale soprattutto nel finale sperimentale e schizofrenico che dà proprio alla geografia dello spazio esterno tutto un altro valore, ponendo la Natura, più che come eterea scenografia per il combattimento, come osmosi “illuminata” con la divinità. E mentre da un punto di vista etico ogni svolta religiosa è sempre discutibile, da un punto di vista estetico (che è la cosa più importante nei film del genere) questa soluzione crea originalità ipnotiche e misteriose. Non bisogna escludere dall’equazione il lento traslare della trama da un giallo ad un fantasy, con necessaria costante atmosfera di astrattismo, comprese inquadrature insistenti di ragnatele che implicano un’allegoria della labirintica complicatezza della trama del film, costituita da complotti incoerenti e analessi montate in maniera a tratti incomprensibile.
Tra un’inquadratura pittorica e l’altra, l’arte di King Hu prende una forma sempre più consistente e affascinante: rurale e fantasmico, religioso e movimentato, naturalistico e mortifero, A touch of Zen è un amalgama di idee coreografiche e visive illuminanti e influenti, ma soprattutto è un’epopea originale e innovativa di un genere, una testimonianza di un’epica che è difficile riscontrare nel cinema del giorno d’oggi. Il dinamismo lunatico del Cinemascope di Hu è un sogno dinamico, un film di culto perfetto per il genere di cui è tra i massimi esponenti, grazie alla sua schizofrenia pirotecnica e al senso di memoria culturale che in esso è costantemente riscontrabile.
Nicola Settis