Inizia con una lunga inquadratura di un blocco di quarzo vecchio di tremila anni El bóton de nácar, il documentario di Patricio Guzmán presentato nel febbraio 2015 alla Berlinale, dove si è aggiudicato l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura e il Premio della giuria ecumenica. In Italia è arrivato poco dopo grazie al Biografilm Festival, nel giugno 2015, con una proiezione che ha preceduto di quasi un anno l’uscita nelle sale della penisola. In quel blocco di quarzo, rinvenuto nel deserto di Atacama, è racchiusa una goccia d’acqua che la macchina da presa si ostina a voler rappresentare nella sua metaforica condizione, per certi versi ambigua e ossimorica, di cattività e libertà.
L’incipit di El bóton de nácar costituisce, di fatto, un ponte con il precedente film di Guzmán, Nostalgia de la luz, rispetto al quale quest’opera va a porsi come ‘sequel’ (per quanto goffamente possa essere utilizzato questo termine nel mondo dei documentari) di una trilogia che si è completata con La Cordillera de los sueños, presentato l’anno scorso a Cannes e previsto, prima dell’emergenza Coronavirus e dell’ovvio slittamento a data da destinarsi, proprio per questo mese di maggio nei cinema italiani. Nostalgia de la luz, infatti, era totalmente incentrato su un luogo, il deserto di Atacama, in cui andavano ad intrecciarsi tre storie diverse eppure accomunate da un orizzonte temporale, il passato, visto nella sua accezione storica, scientifica ed archeologica. Dal deserto di Atacama, anima solitaria del Cile settentrionale, si passa, proprio per mezzo di quel quarzo ivi ritrovato, all’elemento dell’acqua, in esso intrappolata. Quella piccola goccia è scelta nella sua funzione metaforica di sineddoche, la proverbiale componente infinitesimale di ciò che – enorme – attornia tutto il confine occidentale e meridionale del Cile: l’Oceano Pacifico.
E l’Oceano, in effetti, è un vero e proprio protagonista di El bóton de nácar, al punto che nasce probabilmente da qui la discutibile decisione della distribuzione italiana di trasformare “Il bottone di (madre)perla” del titolo originale in quelLa memoria dell’acqua da cui il bottone fu ripescato. Una scelta che, oltre a depotenziare la poetica del titolo originale in un inutile didascalismo, crea da sempre un’evidente confusione con La memoria del agua di Matías Bize, film che al di là dell’imposta omonimia in comune con lo straordinario lavoro di Guzmán avrebbe solo la nazionalità cilena e il 2015 come anno di produzione. Ma si diceva dell’Oceano Pacifico. Un protagonista di El bóton de nácar almeno quanto il deserto di Atacama lo era di Nostalgia de la luz: due anime antitetiche di un Paese a suo modo unico come il Cile, sviluppato in verticale, arrampicato lungo le Ande centro-meridionali, spina dorsale di un Sudamerica di cui sembra costituire un’anomala appendice. Un Paese singolare, nella sua lunghezza che costringe gli studenti a studiarlo in tre blocchi, dato che una cartina unica sufficientemente dettagliata occuperebbe uno spazio verticale troppo ampio. Una necessaria separazione che diventa una facile metafora delle divisioni interne di un Paese dalla storia sicuramente travagliata.
Il Cile è un’isola, ama dire Guzmán (e gli fa eco Gabriel Salazar), assediato com’è dalla Cordigliera delle Ande, a Est, dal deserto di Atacama, che occupa il Nord del Paese, e dall’immenso Oceano Pacifico, unico altro confine naturale per un popolo che, anche per questo motivo, ama affermare la propria solitaria unicità e vantarsi del proprio isolamento. È più isola di Cuba, dice Guzmán del suo Cile, con un’iperbole che chiama in causa l’isola caraibica in cui il regista trovò rifugio dopo essere scappato dalla sua terra, nel 1973, dopo il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet.
L’Oceano Pacifico bagna il Paese in tutta la sua lunghezza, ma in particolare avvolge i fiordi del sud, quelli disegnati dalle Ande nell’atto di terminare la loro corsa tuffandosi in mare, in corrispondenza della Patagonia occidentale e della Terra del Fuoco cilena. Una straordinaria carrellata, probabilmente ripresa da un satellite, mostra le frastagliate coste meridionali del Cile del Sud, fino a Capo Horn, punto più meridionale del Sudamerica, cancello naturale tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico, trampolino di lancio verso l’Antartide. Ma le meraviglie naturali sono solo un aspetto, importante ma secondario, di questo documentario che ha in realtà, come d’abitudine per l’autore cileno, una fortissima connotazione storica, politica, sociale, filosofica, in qualche modo profetica. La Patagonia è infatti presentata nel suo ruolo di ambiente naturale e geografico in cui vivevano i popoli fuegini, gli indios autoctoni che furono oggetto di un’orrenda decimazione a causa (principalmente) dei coloni che sul finire dell’Ottocento iniziarono ad occupare quelle terre. Delle cinque tribù che popolavano quelle regioni rimangono ormai soltanto più venti individui, tre dei quali intervistati da Guzmán, che ci propone un viaggio tra le loro lingue incomprensibili, patrimonio culturale destinato a un ineluttabile oblio. I popoli fuegini, padroni per millenni di quegli ambienti inospitali per molti, ma non per loro, vivevano in simbiosi con l’acqua, nelle loro canoe che utilizzavano per spostarsi, ma anche come vere e proprie dimore, dentro le quali accendevano i fuochi che consentivano loro di sfidare il rigore di quei climi. Il più famoso esponente di quelle popolazioni è stato – come racconta Guzmán – Jemmy Button, un nativo della tribù degli Yámana che nel 1830 fu portato in Europa (assieme ad altri tre fuegini) dal Capitano FitzRoy, comandante del brigantino Beagle. Button doveva questo suo epiteto al fatto di aver accettato di viaggiare verso la Gran Bretagna in cambio di un bottone. Ed ecco che comincia a far capolino la poesia del magnifico titolo originale scelto da Guzmán, El botón de nácar (il bottone di madreperla), anche se si dovrà giungere alla fine del documentario per capire appieno il riferimento. Il bottone è qui simbolo di una perdita di innocenza, ma anche dell’inganno dell’uomo bianco (pur se FitzRoy – come si affretta a chiarire il regista – era in realtà un umanista convinto, mosso dalle migliori intenzioni). Jemmy Button tornerà in Terra del Fuoco l’anno successivo (sempre sul Beagle di FitzRoy, sul quale questa volta salirà, per compiere i suoi studi, anche il naturalista Charles Darwin), ma non sarà più lo stesso. La cosiddetta civiltà avrà un effetto devastante per coloro che, di fatto, vivevano allo stato dell’età della pietra e che si ritrovavano fiondati, d’un tratto, in piena Rivoluzione industriale. Cinquant’anni dopo quei popoli inizieranno ad essere cacciati come trofei da sicari assoldati dai coloni, che promettevano ai ‘cacciatori di indios’ una sterlina per ogni testicolo di indigeno, una per ogni seno di donna, mezza per un orecchio di bambino. Ma il massacro degli autoctoni è proseguito anche per effetto di scelte scellerate, come quelle che portarono le missioni cristiane a donare ai fuegini vestiti usati, che causarono epidemie di malattie che sino a quel momento in quelle regioni non erano esistite.
L’acqua, dunque, come elemento prediletto di quei popoli distrutti dal mondo civilizzato. L’acqua dell’Oceano e quella dei ghiacciai patagonici, dal colore surreale, che pare quasi virato in negativo. Ma anche l’acqua come testimone di crimini più recenti, di un Cile moderno che sembra aver rinnegato il proprio rapporto con l’Oceano – anche a fini commerciali, nonostante l’indubbio privilegio geografico. E che dunque finisce per ricordarlo, l’Oceano, in senso antitetico rispetto ai fuegini, per il suo messaggio di morte più che per il suo potenziale di vita. Durante la dittatura di Pinochet, infatti, il Pacifico veniva utilizzato come fossa comune dei desaparecidos torturati e uccisi dal regime. Guzmán ci mostra il macabro rituale con cui veniva letteralmente confezionato il cadavere di uno dei tanti prigionieri politici che trovarono la morte in quegli anni: una traversina da trenta chili legata con del filo di ferro attorno al torace; due sacchi di plastica, uno infilato dai piedi e uno dalla testa; e due di juta a chiudere il fagotto. I corpi venivano poi gettati in mare dagli aerei o dagli elicotteri durante i famigerati voli della morte, talvolta, addirittura, con gli esecutori che si accorgevano all’ultimo che il prigioniero era ancora in vita. Ad una di quelle traversine, ripescate dal Pacifico soltanto di recente, è stato trovato attaccato, quasi come se fosse saldato, un bottone di madreperla, unico resto di un desaparecido. Ed eccoci al secondo botón de nácar.
Si conferma, con El bóton de nácar, la finalità genuinamente politica dell’opera di Guzmán, la sua volontà di denunciare gli orrori del Cile dell’Ottocento, ma anche e soprattutto quelli più recenti della dittatura di Pinochet, magari per iniziare con qualche anno di anticipo ad aprire gli occhi su quella che oggi è la contemporaneità, sulla corruzione, sulla repressione, sulla guerra civile ancora in corso, nel silenzio assordante di media che hanno trovato altre notizie da spolpare, per le strade di Santiago. L’obiettivo principale del regista è quello di non far cadere il velo dell’oblio su fatti drammatici che ancora turbano il sonno di molti, nel Cile di oggi: ferite aperte che vengono tacitamente rimarginate dalla silent majority che punta al quieto vivere, a costo di chiudere un occhio sul passato. Guzmán porta avanti questa sua idea di cinema da ormai quasi cinquant’anni e questo secondo capitolo di una nuova trilogia (sulla memoria, dopo quella, più a caldo, degli anni Settanta sul golpe) acquista contorni ancor più definiti del primo. Con El bóton de nácar/La memoria dell’acqua, infatti, il regista riesce anche ad evitare quelle piccole imperfezioni che avevano caratterizzato Nostalgia de la luz: la sceneggiatura è questa volta limpida, priva di quelle imbeccate che erano risultate un po’ forzate nel precedente capitolo di questo viaggio nella memoria del Cile. Il ritmo è volutamente lento, in perfetto spirito sudamericano, e Guzmán dimostra di avere, in ogni momento, il controllo totale della narrazione e di sapere dove voler condurre lo spettatore, accompagnandolo con una voce narrante pacata e rassicurante, nonostante un taglio quasi didattico (accentuato nella versione doppiata in italiano da Rodolfo Bianchi), che si libra tra la poesia e la nuda prosa.
Guzmán, ancora una volta, parte dalla natura per giungere alla storia, in un racconto polifonico che è metafora stessa dell’azione dell’uomo, anch’egli, in senso lato, natura che si fa storia. Lo sguardo sognante sulle bellezze naturali, sul cosmo e sui suoi misteri (che emergono nuovamente nel Guzmán appassionato di astronomia), è solo il dolce antipasto di un macabro resoconto della crudeltà dell’uomo e della sua tendenza all’autodistruzione.
Vincenzo Chieppa