«Mio padre era solito filmare le tradizioni e i paesaggi del suo villaggio. Un giorno notai che aveva anche l’abitudine di filmare le piante e gli uccelli che stavano scomparendo, mentre contemporaneamente registrava i loro nomi in basco antico all’interno della colonna sonora…»; così Oskar Alegria descrive i ricordi riflessi dal fiume Arga, nella profonda Navarra, dove quel lembo di terra è oramai nascosto tra le acque all’ombra di un’enorme diga. Zumiriki (già la densa etimologia del titolo, in lingua ovviamente basca “isola in mezzo al fiume”, è una direzione senza fine) appare come un atto unico dalla forma ermetica di un linguaggio denudato anche dalla parola, dove solo l’occhio si sente partecipe del creato e a sua volta creatore. Una nuova mappatura di quel territorio durato giusto l’infanzia di un autore/attore, ora nella vivisezione delle sue rimembranze, in un diario a cuore aperto. Un luogo magico nella sua completa astrazione, abitato una volta anche da Albitsur, eremita e pastore, isolato al mondo da un fiume lasciando la parola al di là di esso. Dalle conversazioni con lo zio di Oskar si narra che una mucca del suo gregge sopravvisse al macello, così da diventare essa stessa fantasma mitico di quella memoria. Oskar allora decide di costruire la sua capanna isolata, il tempo di un’estate (forse lo stesso dell’infanzia?); per guardare l’invisibile di spazi segnati oramai solo da due grandi alberi, su cui giocare e lasciarsi trasportare. Interno ed esterno a una realtà, quasi parallelo e mai tangente.
La deriva su senso e percezione delle cose sta nella domanda, nella sua continua esposizione di un’erranza che lotta contro l’abbandono. Lo sono le poche anime che nell’oblio vivono lì, cristallizzate in quella capsula, la propria personalissima resistenza alla morte; lo è una lingua i cui fonemi paiono scomparire ogni (ultima) volta che viene pronunciata una sola (ultima) sillaba. Nel passaggio di tempo si sublima ciò che non può più esser visto. Attraverso questo crinale assai scosceso Oskar cammina su di un filo che nessuno di noi può intuire per sfuggire a questo nulla, a questo vuoto; un filo teso fra la doppia sopravvivenza del sostenersi per qualche mese nella natura matrigna dei propri ricordi, e il resistere al naufragio del disastro di ciò che sfugge. Ed ecco che le immagini che pian piano sorgono come germogli, specchio di quei pochi fotogrammi di 8mm dissoluti dal padre, apparsi qui come il miraggio di un esploratore che non saprebbe più riconoscere la terra da trovare. Una nuova genesi con cui ricreare un rapporto tra gli oggetti (un orologio e un coltellino) e la loro immagine; con cui inseguire la luce che li dipinge e che su di essi si scompone come impronta della fisicità di ciò che è perduto. Guardare e farsi guardare, dalle galline, dagli altri animali spersi nella notte; tessere una tela così sottile di rapporti e suggestioni, da essere dolcemente percepibile a chi ascolta, con quell’utopia di purezza che sfida il dramma della caducità della durata a cui siamo aggrappati. Il senso dell’attesa che diventa pulsante ed eternamente attiva, come il donare all’e/assenza della memoria un altra possibilità, quella della follia. Arrendersi significa sparire, non lasciare nemmeno una traccia di tutto questo passaggio.
Ciò che questo film lascia è il suo divenire, qualcosa che fa parte della sostanza propria del cinema, di chi lo fa nel momento stesso di guardarlo. Oskar si muove con noi, sempre a un passo dal naufragio, nella continua decostruzione di quell’impressione lontana che pare sedimentarsi nell’oggi, nella flagranza di una libertà che reinventa un piccolo mondo per farlo fluire tra realtà e apparenza. Cerca di cogliere ora ogni attimo, tornando sui passi dei propri frammenti per costruire uno squarcio nella rappresentazione dove possa esistere un’altra vita, un altro tempo. In questa pratica della perdizione, che rifiuta ogni struttura e teoria possibile che non sia quella dell’esperienza, il nostro piccolo esploratore entra a contatto con se stesso, con l’esigenza di portare a sé ogni elemento che sfiora; nella perenne angoscia drammatica di poterlo perdere un’altra (ultima) volta. Nel gioco continuo dell’atto cinema come evocazione di fantasmi, nella ricollocazione continua dell’affondare in una qualsiasi rimembranza, nelle lancette di quell’orologio fermatosi per sempre alle 11.36 (e 23 secondi). Ecco quella mucca, e con essa tutti i segreti del mondo, tutto l’invisibile che si fa carne della memoria. Nessuno sa se sia mai esistita o se fosse proprio lei ad apparire oggi, ma cosa conta davvero oramai? A che cosa tutti noi possiamo affidarci se non al cercare ciò che siamo (stati)? «…fu allora che appresi che se le parole muoiono, anche gli uccelli e le piante svaniscono. Filmare era allora un gesto per salvare il nostro mondo antico. Filmare per vivere due volte. Filmare per sentire la nostra voce di bambini». Così Oskar sulla pratica del padre, del suo filmare tutto ciò che poteva scomparire; così noi riflessi da qualcosa che non sia il fiume Arga, ma un’immagine che confonda e specchi le nostre paure, le ampli e le condensi, le faccia crescere così tanto fino a farle esplodere. Così io a cercare, inutilmente, la parola che possa dare senso a questo testo in relazione a ciò che abbia potuto (intra)vedere sull’isola dei miei abbandoni, in cui questo film inesorabilmente ti trasporta. Indifferentemente che lo si sia visto a Venezia, a Rotterdam, ad Avellino, a Firenze, a Perugia, ovunque sia passato. Così lui oggi, qui e ora. All’infinito (e oltre).
Erik Negro