25 Febbraio 2020 -

THE TWO SIGHTS (2020)
di Joshua Bonnetta

«They do not live in the world, / Are not in time and space. / From birth to death hurled / No word do they have, not one / To plant a foot upon, / Were never in any place». Nelle meravigliose parole di Edwin Muir, scozzese e isolano (delle Orcadi), pare pulsare un desiderio malinconico di vita che realmente sfida faccia a faccia l’aldilà. Anche il cinema, in fondo, ha sempre cercato una sua misura attorno alla morte, una dimensione in cui trovare qualcosa che sfugge alla vita (anche per sempre). E Joshua Bonnetta pare in questo senso guardare proprio a Muir, nei suoi due anni attorno alle Ebridi a evocare voci attraverso la grana in 16mm che guarda le vertiginose scogliere e il verde dei prati, riflessi di case distanti e presenze solo accennate. C’è il vento e c’è l’acqua, ci sono gli elementi che nascondono un silenzio profondo, quello irreversibile. Con la stessa irregolare imponenza di una falesia, tutti i frammenti si condensano passo dopo passo, gli scheletri e gli animali, le anime che vagano la brughiera, ciò che resta e quello che scompare; una narrazione che si stratifica pian piano, sempre divergente e sempre sfuggente, qualcosa da attraversare nella magia più pura di ciò che non si può spiegare – come il cinema, appunto – che deflagra e dilaga in una sottile e struggente leggerezza di sensi. Presentato nel Forum della 70ma Berlinale, The Two Sights è un piccolo viaggio intimo e remoto che coinvolge il nostro occhio ed il nostro orecchio, che stimola la nostra ossessione dell’oblio, che lascia dolcemente emergere la volontà di mantenere il segno di questo passaggio, pur minuscolo che sia.

Prima venne il suono. L’apertura vede lo stesso Bonnetta installare un microfono su una cresta battuta dalla brezza vorticosa e instabile. Un’immagine cristallina che introduce una serie di voci e di racconti, tra l’inglese marcatamente scotch e il gaelico più stretto, che appaiano quasi come evocazioni diaristiche di presenze strappate alla vita. Un encomio alla provvisorietà e alla fragilità, le cui immagini diventano i campi lunghi e scoscesi di un qualcosa che emerge pian piano dalla foschia per farsi presenza materica all’interno del fotogramma. Nel dualismo continuo che emerge già dal titolo e che lega indissolubilmente passato e futuro, nella caratteristica simbolica della presenza come atto e rito di passaggio di una vita che, nella forma terrena, può trovare solo una delle sue moltipliche e infinite espressioni. Nessuna direzione può essere provvisoriamente data, nessuna traiettoria, nessun embrione di narrazione. Sarà solo questa programmatica forma di stratificazione a generare sinestesie continue e improvvise, schegge di pensieri ben distanti dal filmato e dal filmabile. Ciò che ascoltiamo è lo scheletro di quello che vediamo; un organismo traballante e vagabondo che si muove magari, in una scelta dal lirismo quasi commovente, al suono di una cornamusa. Tutto qui, tutti qui; nella ruvida semplicità di un popolo insulare e del tremendismo di quel destino in cui, per qualche minimo frammento, ci sentiamo addirittura di far parte. In chiusura quel microfono verrà tolto, la collina tornerà sola e vuota. Ma tutto quel sentire è oramai incapsulato, per sempre.

È un film di dolore e desiderio che oltrepassano la presenza del film stesso, The two sights. Quello dell’autore canadese è uno sguardo solo apparentemente antropologico perché attraversa anche la nostra necessità di giustificare una presenza verso l’aldilà. Un bisogno ancestrale che trova nel severo primitivismo emotivo delle Ebridi una vigorosa purezza di emozioni e squarci sul reale. Un senso pagano e mitologico dell’essenza regna tra quegli speroni tempestosi che appaiono come luogo di eterno passaggio, di sublimazione delle cose in cui ogni anima può avvicinarsi a se stessa e così disperdersi. Prendendo a prestito i versi di un’altra poetessa scozzese: «Per anni ho vagato per alture e brughiere / Alla ricerca della strada / Che porta tortuosa al paese delle fate / Dove teneva una fucina il fabbro / Che avrebbe arroventato i ceppi / Ostinati che al passato mi tenevano legata / Poi, con un possente colpo di martello / Mi avrebbe finalmente liberata. / Più vecchia ora, so che né denaro / Né incudine quelle catene possono rompere / E le strade ribelli che crediamo di percorrere / Non fanno che portarci qui di nuovo». Nelle parole della contemporanea Kathleen Jamie pare di sentire l’eco delle voci di questo film, la nuda sacrilità scarna di una tradizione nordica che vive la morte come atto di passaggio verso un ignoto che è adiacente ma mai tangente al nulla. La sensibilità di Bonnetta è quella di comprendere tutto questo, lasciarsi fluire e sfuggire il film, comprendendo come proprio del cinema stesso la morte sia una ossessione come una dimensione. An Dà Shealladh è un piccolo film che però guarda al nostro destino, alla nostra strada, alle nostre catene. Alla liberazione da ciò che non possiamo, giustamente, comprendere.

Erik Negro

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