«Tout le monde sait comment on fait des bébés – Mais personne ne sait comment on fait des papas» (Tutti sanno come si fanno i figli – ma nessuno sa come si fanno i padri) si sentiva qualche anno fa in una hit del cantante belga Stromae. E pure la questione centrale di Favolacce, di Fabio e Damiano D’Innocenzo, presentato in competizione alla 70esima edizione della Berlinale, verte intorno a questa frase.
Il film, ambientato nella periferia di Roma, tra Spinaceto e Casal Bruciato, narra le vicende estive di un gruppo di persone, genitori e figli, attraverso le pagine frammentarie (da cui la frammentarietà dei singoli episodi) di un diario di una ragazzina, scritto con la penna verde e ritrovato da un uomo che sarà la voce narrante.
C’è una notizia al tg: due giovani genitori hanno affogato una neonata e si sono poi suicidati. Una famiglia composta da Bruno (Elio Germano), Dalila (Barbara Chichiarelli), e i piccoli Dennis (Tommaso Di Cola) e Alessia (Giulietta Rebeggiani) guardano il telegiornale, seduti sul loro divano. Da questo momento si dispiegano una serie di vicende che li riguardano direttamente e che coinvolgono anche altri personaggi: l’introverso Geremia e suo padre, Viola e la sua famiglia, il professore di scienze Bernardini, una giovane ragazza incinta…
In Favolacce sembra di essere stati catapultati in un universo anni ’90: villette monofamiliari con giardino arredate con tavoli di plastica, barbecue, improbabili mercatini dell’usato. I costumi e persino le pettinature suggeriscono un’epoca in perfetto stile nineties, fino a quando la comparsa di uno smartphone immediatamente riporta ai nostri anni, pur restando l’unico elemento a contraddistinguerli. I personaggi si muovono in un mondo che potrebbe in realtà trovarsi ovunque e che sembra ispirato all’immaginario di periferia americano degli anni ’90 con tanto di pick-up rosso a farla da padrone, in una scena in cui il piccolo Geremia (Justin Korovkin) si mette alla guida mentre suo padre, fuori dall’auto, lo incoraggia con toni da tifoso. Ed è forse proprio un certo tipo di cinema “indipendente” americano ad aver ispirato i D’Innocenzo, con la creazione di un’atmosfera che sembra un misto tra Happiness di Solondz e Juno di Reitman.
I singoli episodi, tracciati ma mai conclusi (Dennis acquista un metal detector al mercatino ma non lo usa mai, Geremia vede portare via il suo cane con la rabbia ma non ne parla più in seguito, la piccola Ada viene lasciata sul prato), servono esclusivamente per aiutarci a entrare nello stato d’animo dei personaggi-bambini che popolano queste Favolacce. Tuttavia, affinché una tragedia si registri come tale, è necessario stabilire un certo legame emotivo con le vittime, sentire sulla nostra pelle i loro sentimenti, scendere nella profondità del loro animo, anche se solo per il tempo del film. Ma questa identificazione, semplicemente, non avviene, bloccata da un qualcosa di programmatico, freddo, troppo calcolato nel riecheggiare citazionista dei cromatismi e nel sovrapporre generi, temi e suggestioni. Si sviluppa anzi una sorta di idiosincrasia, poiché tutti i protagonisti (ad eccezione di Geremia), vengono filmati con un certo distacco (come se guardassimo il telegiornale, appunto) e appaiono più grotteschi e strambi man mano che le immagini si susseguono davanti ai nostri occhi. Le risate, affettate e isteriche, inquadrate in primissimo piano, fanno assomigliare gli attori un po’ a dei Gremlins, e l’unico pianto davvero autentico del film è quello finale di Alessia che, finalmente, compreso l’atto tragico che segna l’epilogo della storia, restituisce un po’ di verità a tutta la vicenda.
Il diario è scritto con una penna verde. Verde speranza. Eppure il feeling che si ha fin dai primi attimi del film è che di speranza non ce ne sarà per nessuno e anche le sequenze coloratissime e incantevoli dei bambini che giocano in piscina, sono accompagnate da una musica inquietante di sottofondo che, come in Hitchcock, è presagio di accadimenti terribili e feroci. Favola nera, si legge ovunque. «Ispirata ad una storia vera che è ispirata ad una storia falsa che non è molto ispirata» ci suggerisce la voce narrante. Eppure il film sprizza di colori da tutte le parti, con riferimenti che vanno più verso il cinema di Alice Rohrwacher che verso il meraviglioso lavoro fatto da Grassadonia e Piazza in Sicilian Ghost Story, in cui il fiabesco si intreccia al reale in un connubio filmico perfetto. Forse però, in Favolacce, la bellezza dei personaggi è proprio da ricercare in questa originalità che rimanda all’Antologia di Spoon River, e dovremmo lasciarci cullare dalle inquadrature che sembrano dipinti di Andrew Wyeth.
Tutta la forza del film risiede comunque nel narrare due diverse generazioni, i rapporti padri-figli e l’incomunicabilità dei sentimenti in un ambito familiare. E in tal senso i D’Innocenzo sono maestri, descrivendo tutta l’opprimente invadenza dei genitori nei confronti dei propri figli (la più che verosimile scena di Dennis che si strozza con un pezzo di carne o la madre di Viola che le rasa i capelli per via dei pidocchi) ricordando episodi comunemente violenti dell’adolescenza di tutta una generazione. Come è sottolineata più volte l’estrema intelligenza dei ragazzini, in grado di muoversi nel mondo con più coscienza dei loro genitori, in grado di affrontare le situazioni con ammirevole coraggio. Del resto quel Geremia alla guida dell’auto (che un po’ assomiglia ai fratelli D’Innocenzo) rimanda un po’ a quel bimbo che guidava l’auto del videoclip Song To Say Goodbye dei Placebo. E questo ammutinamento nella storia e della storia, a ben vedere, pare in qualche modo una riflessione sull’intero sistema del cinema da parte dei D’Innocenzo, come a volersi liberare o ribellare ad un certo tipo di fare cinema, operazione del resto già chiaramente visibile in La Terra dell’Abbastanza. In tal senso, l’intelligenza dei due registi è la stessa intelligenza dei protagonisti di Favolacce, e il loro coraggio li distingue e li smarca da qualsiasi stereotipo cinematografico portandoli, per lo meno nella creazione dell’atmosfera, a contraddistinguersi per originalità rispetto a molti altri progetti e lavori italiani. Siamo sicuri però che non fosse proprio possibile rendere queste Favolacce almeno un po’ più calde e vibranti?
Brunella De Cola