Sono le “lettere maiuscole” che accendono e spengono una scintilla di ribellione, le Uppercase print del nuovo, strepitoso, (capo)lavoro di Radu Jude presentato nel Forum della 70ma Berlinale. Quelle lettere di gesso che, nel 1981 della piena repressione di Ceaușescu, inneggiavano alla libertà dai muri di Botoșani, tracciate fugacemente con un occhio alle democrazie occidentali e l’altro alle libertà progressivamente ottenute dal Solidarność nella vicina Polonia, e con un orecchio alle menzogne della propaganda di Stato mentre l’altro era ben sintonizzato sulle frequenze con cui Radio Europa Libera riusciva dalla Germania, attraverso l’etere, a sfuggire alle censure del Patto di Varsavia. Lettere che componevano slogan per risvegliare la cittadinanza sulla base di ben precise richieste politiche, ben presto rimosse dalla Securitate per iniziare subito le indagini, gli interrogatori, la repressione, l’ostracizzazione, la rieducazione, la persecuzione del colpevole e di tutta la sua famiglia. Scritte cancellabili in pochi istanti, eppure nella Romania del tempo un gravissimo atto terrorista, di cospirazione contro lo Stato. Ma non è solo la triste storia dello studente ribelle Mugur Calinescu, il punto di Uppercase print. Anzi, forse non lo è affatto. È solo uno fra i molti cardini di un film di inusitate complessità e stratificazioni, con cui il (sempre più) grande e prezioso autore rumeno torna ancora una volta alla Storia del suo Paese per ragionare lucidamente sulla forma e sulla messa in scena, sui contrasti e sulle contraddizioni, sulla realtà e sulla recitazione, sull’urgenza politica e su come menzogne ed epoche storiche si ripetano ciclicamente negli stessi paradigmi, inevitabilmente ripercuotendosi sul popolo.
Radu Jude, come di consueto spiazzante e sempre imprevedibile nella profonda radicalità delle scelte, riparte in qualche modo da un’apparentemente impossibile combinazione delle istanze dei suoi ultimi due straordinari lavori, trovando nella loro alternanza disconnessa un’ulteriore e inedita forma linguistica, capace di un illuminante discorso teorico che, pur tenendosi a distanza siderale da qualsiasi possibile declinazione del mainstream, mai perde di vista l’intrattenimento, l’ironia, in un certo modo la poetica. Da una parte ribaltando il senso dell’archivio già di The dead nation – lì fotografico a testimoniare il vero nei piatti all’albumina degli anni Trenta e Quaranta, qui all’opposto dimostrazione del costante falso delle immagini televisive di regime dei primissimi Ottanta fra documentari, pubblicità, canzoni e varietà esplicitamente filogovernativi –, e dall’altra tornando allo spettacolo teatrale che già (meta)imperniava I do not care if we go down in history as barbarians, che in Uppercase Print è invece la perfetta base di partenza trovata nell’omonimo e profondamente brechtiano Tipografic majuscul di Gianina Cărbunariu. Un teatro d’avanguardia che, all’opposto della perenne e maliziosamente depistante menzogna conservata come pseudoverità negli archivi, giunge alla reale Verità, processuale ma non solo, attraverso la smaccata recitazione e una messa in scena il più possibile astratta, cromatica e antinaturalistica, tratto direttamente dai verbali sul caso Calinescu conservati negli archivi della Securitate e portato in scena fra gli spicchi simbolici di uno spazio circolare a rievocare passo passo ogni fase dell’indagine e del processo, ogni interrogatorio e ogni testimonianza, ogni punto di vista e ogni discrepanza. Ogni verità e ogni «verità», ogni messa in scena e ogni messinscena.
L’archivio continua a dissonare con le sue immagini prodotte o autorizzate dal regime di una Romania felice, libera, giusta, spesso tagliate proprio sul loro climax come a dimostrarne ancor di più la natura consapevolmente mendace. Sono bambini che cantano in cerchio, programmi di cucina, spot dei nuovi frigoriferi, eventi sportivi, squallidi balli popolari nei primi tentativi di blue screen, cinegiornali sui divieti di clacsonare e galline da nutrire, premiazioni ufficiali direttamente celebrate dal dittatore e messaggi d’affetto per il Presidente inseriti a profusione in ogni occasione possibile e immaginabile. Sono intere schiere di donne con un nuovo figlio della patria in braccio e un altro già in grembo, sono canzoni che risuonano nelle rappresentazioni dei confini rumeni, sono uomini che si allenano ogni giorno per essere in forma, forti e utili. E c’è persino chi è andato nell’Ovest capitalista e ha ben presto deciso di tornare nel più equo Socialismo, deluso dalle storture e dalle difficoltà del Capitale. Immagini che, più e meno dirette ed esplicite nel loro obbligato schierarsi, si sforzavano di simulare su tubo catodico e mostrare ai cittadini della Romania, ma anche al mondo, una libertà del tutto inesistente mentre lo Stato torturava – non solo psicologicamente – chiunque non fosse invisibile e perfettamente allineato alle linee del Partito. Intere ore di una ben precisa retorica di menzogne da smascherare, montate da Jude in una dialettica di continue contraddizioni fra la propaganda e la pressione insostenibile del controllo dittatoriale che emerge dello spettacolo teatrale sul caso Calinescu, tutto di microfoni nascosti e di imposizioni, di polizie segrete e di rigidi protocolli, di tensioni e di pressanti richieste. Di interrogatori e di veri e propri processi scolastici con i quali autoredimere il corpo docente e scegliere di emarginare ulteriormente lo studente, di ricatti psicologici con cui continuare a schiacciare la libertà e di compagni di scuola costretti a collaborare con le autorità, di costanti tentativi di giustificazione quando incalzati e di vite lavorative dei genitori scientificamente distrutte. Di assolute fissità frontali in un set/simbolo che mai nemmeno per un secondo nega la sua natura di scatola scenica, di teatro, di cinema, leggermente variate solo in un singolo split screen “telefonico” e in un paio di dialoghi di profilo.
Jude, in un 4/3 saturo e rigoroso, ma soprattutto coerente con il formato dell’archivio televisivo, filma lo spettacolo nei suoi monologhi e nei suoi dialoghi “ufficiali”, intelligentemente riportati più che realmente recitati da attori che sfondano la quarta parete e guardano direttamente in macchina tenendosi il più possibile freddi e meccanici, monotono e inespressivi, un po’ per sottolineare la formalità e la non credibilità (proprio perché in sostanza non-realtà di una trascrizione non letterale) del farraginoso linguaggio burocratico che ogni verbale mette in bocca a ogni dichiarante, e un po’ perché, tanto più in uno Stato dittatoriale, ogni dichiarazione ufficiale è già recitazione, è dire al Potere esattamente quello che vuole sentirsi dire per tentare di evitare ulteriori ritorsioni, ricevendo in cambio le altrettanto recitate rassicurazioni ipocrite di chi magari ti sta letteralmente avvelenando. E non è certo un caso, in tal senso, che dopo l’alternanza fra lo spettacolo della Cărbunariu e l’archivio della rigorosa cronologia dal 1981 al 1982 “rieducato” di un sedicenne prima rivoltoso che gagliardo confessa ma non si pente e anzi rilancia con vigore le proprie idee, e poi studente modello senza più idee reazionarie per la testa – con la necessaria tappa all’85 della sua morte per leucemia dopo quattro anni di convocazioni e forti mal di testa in seguito ogni caffè (con ogni probabilità radioattivo, ma non ci saranno mai le prove) “offertogli” dalla Questura – Jude e Gianina Cărbunariu chiudano Uppercase Print sull’oggi, con quegli stessi uomini un tempo nella polizia segreta e adesso ovviamente impiegati in altri uffici che ancora si autoassolvono, giurando fino in fondo il falso di aver tentato di reinserire i ragazzi nella società senza avere mai usato violenza, senza avere mai costretto, senza avere mai avvelenato chi aveva avuto la “colpa” di alzare la testa. Una sorta di agghiacciante rievocazione dell’Ultima cena leonardesca in cui non è raro imbattersi in qualche attrezzista ancora al lavoro sul set, dove al posto del Cristo c’è l’emissario di quel Potere che ha sempre ottenuto tutto ciò che voleva, e mai, a ormai più di trent’anni dalla morte di Ceaușescu e dalla caduta del Muro, lo ha perso. Trent’anni in cui evidentemente non ha nemmeno ritrovato la dignità, l’umano, il senso della realtà e della colpa, e non li ritroverà mai. Mentre scorre la Romania di oggi fra il traffico, le insegne di Vuitton e le gigantografie della Barbie, simboli dell’ovest e del Capitale che ha “liberato” dalle storture socialiste. Senza che quasi ci si renda conto che nient’altro è che un’altra dittatura, che allo stesso modo spia, tiene monitorati e tenta di pilotare gusti, interessi, necessità. Un totalitarismo apparentemente meno invasivo e del tutto diverso, eppure realmente meno invasivo e così tanto diverso?
Marco Romagna