I fratelli Safdie hanno entrambi poco più di trent’anni. Hanno alle spalle una sfilza di cortometraggi e tre lungometraggi, tra i quali il più recente prima di Diamanti grezzi, Good Time (2017), aveva ottenuto una certa visibilità, tra il clamore a Cannes e la distribuzione su Netflix. Cooperano assiduamente con l’amico Ronald Bronstein che li aiuta nella stesura della sceneggiatura e nel montaggio. Sono newyorchesi e respirano cinema in un modo che sembra già veramente maturo, i critici li paragonano agli altri astri nascenti di questi anni, Zahler, Aster, Eggers, Mitchell. Ma i più pensano che Uncut Gems sia o il punto d’arrivo di un percorso di perfezionamento stilistico o la prima grande rivelazione a livello commerciale del loro talento; la verità sta nel mezzo. Uncut Gems è un punto d’arrivo nel senso che è il primo film dei Safdie ad aver raggiunto un certo livello di manifestazione palese e condivisa del loro talento, ma è in realtà anche la loro prima opera, la più seminalmente necessaria nel loro sentiero. La sceneggiatura esisteva già da prima dell’esordio al lungo, e più di 10 anni prima della fine della post-produzione del film era già stata portata ad Adam Sandler, che l’aveva rifiutata. I Safdie non potevano rimanere con le mani in mano. Hanno continuato sui loro progetti personali finché l’incontro con Arielle Holmes ha portato a Heaven Knows What nel 2014. Il film piacque a Pattinson che chiese ai fratelli di poter lavorare con loro. Non potendolo includere nello script di Uncut Gems (che nel frattempo veniva costantemente ritoccato e perfezionato per adeguarsi al passaggio del tempo), i Safdie hanno scritto ad hoc Good Time che ha abbondantemente aiutato a confermare il loro nome tanto nell’ambiente hollywoodiano e indipendente quanto in quello cinefilo. Poi, le opportunità per l’ambiziosissimo Uncut Gems si sono aperte, Adam Sandler si è unito al progetto e con lui Lakeith Stanfield, Idina Menzel e varie celebrità che interpretano se stesse, tra cui spiccano il cantante The Weeknd (che interpreta se stesso prima di diventare famoso) e soprattutto l’ex-cestista NBA Kevin Garnett, le cui partite sono al centro della storia al punto da motivarne la collocazione temporale nel 2012. Al loro fianco, una serie di non-attori dalla bravura insospettabile. Un progetto ad alta scala rispetto ai precedenti lavori dei fratelli; è costato 20 milioni di dollari, che è poco per un film hollywoodiano ma è dieci volte più di Good Time, ma ne ha già guadagnati il doppio, risultando uno dei maggiori successi della A24, la più interessante casa di produzione emergente negli Stati Uniti. È un gran peccato – per non dire un’offesa all’opera, per come è concepita e per come andrebbe vista – che da noi non sia uscito in sala, ma nell’inquietante silenzio distributivo e nell’impossibilità di fruire del film nelle giuste condizioni Netflix è ormai nelle case di tutti, e grazie al passaparola sempre più appassionati si stanno innamorando dei Safdie e della storia di Howard Ratner.
Per capire in cosa consiste la grandezza di Uncut Gems tuttavia, nel caso la visione non lo rendesse lapalissiano, è una serie di perfetti incastri tra intento ed estetica che rendono l’esperienza di visione inequivocabilmente intensa. Tutto parte, sicuramente, dal personaggio di Howie. Il protagonista è una maschera: un vestiario scoppiettante, con un gusto un po’ anni ’80 e un po’ tarocco, occhiali che nascondono lo sguardo e barbetta confusa. Ha un negozio di gioielli in cui contrabbando, strozzinaggio e scommesse sono parole chiave. Sua moglie lo sta lasciando ma i tre figli ancora non lo sanno. La sua cassiera, Julia, è la sua ragazza, e come “secondo lavoro” spaccia cocaina. Deve dei soldi al suo cognato Arno, ma ogni volta che Howie guadagna qualcosa butta tutto in scommesse, e ormai viene minacciato di morte quotidianamente. Gli arriva dall’Etiopia una pietra colorata legata alla Storia degli ebrei africani per un’asta, e la fa vedere a Kevin Garnett un giorno che entra nel suo negozio per comprare un orologio. Guardandone i colori, si convince che ha un potere magico, e che può portargli fortuna durante le partite. La chiede in prestito. Il mondo intorno a Howie diventa sempre più veloce, e lui non fa che camminare, telefonare, mandare messaggi, improvvisare, sclerare, ridere, piangere, spendere, urlare. Soprattutto urlare. Il DoP Darius Khondji ha girato tutto in 35mm con lenti super-zoom e con un sistema detto Light Ranger 2 per fare in modo di calibrare il fuoco sempre su Adam Sandler nonostante i suoi continui, irrequieti, imprevedibili spostamenti. Il film comincia in medias res già ponendosi con un ritmo snervante. I primi minuti sono perlopiù privi di esposizione, siamo trascinati senza alcuna preparazione nella vita di Howie a partire dalla sua colonscopia, con cui si aprono i titoli di testa dopo un prologo in Etiopia che ha un’aura arcana come l’incipit de L’esorcista. Le riprese forsennate e il montaggio serrato danno un senso di fluidità frammentaria, tutto avviene con una consequenzialità chiara che in ogni istante fornisce informazioni sulla mentalità o sul retroscena culturale di Howard, e su come la sua storia può essere rappresentativa di qualcosa per capire il genere umano e il nostro mondo. Ma succedono tantissime cose, e molto velocemente, è un po’ un attacco d’ansia e un po’ una montagna russa nella cocaina. Due ore e un quarto sembrano tre quarti d’ora. Usando la cinepresa in modo così grezzo ma senza mai dimenticare le lezioni del cinema classico (e di Scorsese, produttore esecutivo) sulla relazione nello spazio tra la macchina da presa e la reale intenzione simbolico-narrativa della scena, questa tachicardia cinematografica diventa un’esperienza incredibilmente soddisfacente.
Il caos regna sovrano, ovunque, in ogni situazione, il silenzio arriva solo nei momenti famigliari, in cui tutto per Howie si deve acquietare perché deve giungere un’altra maschera, quella del padre e del marito. Che non è credibile, perché ormai lui è la sua vita, è la sua volgarità ed è la sua mediocrità. Ma in ciò, c’è del sublime. Anche perché non vuole rinunciare al silenzio, forse lo vuole raggiungere, ma per farlo ha bisogno di essere in un costante inseguimento. E forse un giorno ne può valere la pena. Il silenzio lo cerca anche nel privato, nell’amore con Julia, spiandola in modo tenero e squallido. Ma altrimenti il suo mondo è scandito in modo martellante dalla musica di Oneohtrix Point Never, come in Good Time. E anche da The Weeknd, Kendrick Lamar, persino Gigi D’Agostino. È un film totalmente dentro alla contemporaneità e ci arriva con una naturalezza che fa quasi paura, come se stesse raccontando il tipo di personaggi psicologicamente, moralmente e socialmente ambigui del neorealismo, gli abbandonati che decidono di andare verso la perdizione, ma sotto un’ottica pop e americana. Non commercializzando uno stilema ma cercando di innovare un linguaggio, e peraltro in modo sottile. I Safdie sono colti, amano Mike Leigh ed Ermanno Olmi, il loro immaginario sarà stato percorso negli anni da migliaia di film e di vite da spiare e raccontare. I loro protagonisti sono reietti autodistruttivi, ma che in qualche modo persistono, e forse meritano una qualche trascendenza. E magari finiscono come vittime, e il mondo direbbe che è giusto così, ma per come il film è raccontato sembrano perlopiù dei martiri. Sembrano trascendere. La storia di Howie è la storia di uno sfigato, qualcuno direbbe persino di un mostro, ma che sopporta una vita, un ritmo, e una propria essenza talmente incasinate che si merita una redenzione, una soddisfazione, una vittoria. Anche a costo di tutto il resto. Perché lui è nato in un mondo che ha permesso che una persona come lui potesse esistere. I Safdie lo sanno scrivere, raccontare, mostrare, accordare. Sanno mettere in scena la confusione della quotidianità, l’irrefrenabile natura ansiogena della ripetitività, la noia irritante della routine e la volatile fugacità dell’adrenalina. Con un prologo e un epilogo di natura ciclica che suggeriscono una dimensione spirituale/esistenziale che è giusto che sia solo accennata e mai approfondita vista la natura del protagonista, Uncut Gems è l’instant-cult americano di cui avevamo bisogno, non il grande ritorno di un maestro conclamato, non il film ben fatto ma la cui ambiguità lo rende interpretabile in troppi modi distanti, non il film sperimentale, non il film sociale, non il grande dramma classico, non l’esordio che fa discutere: è un film di genere e d’autore, che saltella tra il sapore dell’amatoriale e la sovrastruttura del film ad alto budget, che racconta una storia stratificata e spudorata. Mostra un mondo con un’estetica definita e delinea un personaggio unico e indimenticabile.
È davvero uno dei film migliori del 2019 e degli ultimi anni, Uncut Gems. Un film che alla prima visione spiazza e colpisce, e che più si riguarda più sembra diventare complesso e perfetto nella sua stesura, nella sua cura del dettaglio. In modo dolce e in modo sordido. Snobbato dagli Oscar ma ampiamente e giustamente premiato dagli Independent Spirit Awards (regia, montaggio, attore protagonista), Uncut Gems resterà nei ricordi degli appassionati di questi anni. All’alba di un nuovo decennio, dopo esserci lasciati alle spalle un anno in cui la comunicazione e la tecnologia sono cambiate in modo irreversibile, possiamo immaginare, come Howie, che oltre tutto questo caos si possa raggiungere una certezza. Nel racconto, nella rappresentazione di una storia, che ha quel potere unico di traviare la realtà e rivelarla allo stesso tempo, di essere unica e nel contempo universale. Un film in cui ogni scena è una scena madre, da quando Howie va in bagno a pesarsi a quando Julia Fox gli fa vedere il suo tatuaggio sul sedere; perché ogni dialogo, ogni inquadratura, ogni stacco ha la potenzialità di suscitare una sensazione nello spettatore, sensazioni diverse, ilarità e rabbia, tristezza e tensione, disprezzo e affetto, ed è giusto così. Lo scopo non è provocare, è suscitare, porre il pubblico in una posizione in cui la visione è attiva e non passiva. È intrattenimento ma è anche discussione, è autorialità ma è anche un intreccio, è diretto, è brutale. È un mondo fatto e finito, da rivisitare. E questi possono solo crescere.
Nicola Settis