«He pulls a prayer book out of his sleeping bag
Preacher lights up a butt and he takes a drag
Waiting for when the last shall be first and the first shall be last
In a cardboard box ‘neath the underpass
You got a one-way ticket to the promised land
You got a hole in your belly and a gun in your hand
Sleeping on a pillow of solid rock
Bathing in the city’s aqueduct.Well the highway is alive tonight
Where it’s headed everybody knows
I’m sitting down here in the campfire light
Waiting on the ghost of Tom Joad.Now Tom said, “Mom, wherever there’s a cop beating a guy
Wherever a hungry newborn baby cries
Where there’s a fight against the blood and hatred in the air
Look for me, Mom, I’ll be there
Wherever somebody’s fighting for a place to stand
Or a decent job or a helping hand
Wherever somebody’s struggling to be free
Look in their eyes, Ma, and you’ll see me”».Bruce Springsteen, The Ghost of Tom Joad
Nel conquistare nel 1928 la presidenza degli Stati Uniti d’America, sull’onda del boom economico dei roaring twenties, il repubblicano Herbert Hoover aveva fatto notare quanto il Paese – come mai prima di allora – fosse stato vicino a sconfiggere definitivamente la povertà. Il suo predecessore Calvin Coolidge, anch’egli repubblicano, aveva dichiarato, in uno dei suoi ultimi discorsi al Congresso, come i consumi quotidiani avessero “oltrepassato la soglia del bisogno per entrare nella regione del lusso”. Il Paese poteva così “guardare al presente con soddisfazione e al futuro con ottimismo”. Mai previsioni furono più nefaste se si considera che – entrato ufficialmente Hoover alla Casa bianca nel marzo del 1929 – bastarono soltanto poco più di sei mesi perché la Nazione sprofondasse in una delle crisi economiche più devastanti della modernità. Il 29 ottobre di quell’anno Wall Street crollò pesantemente dopo anni di speculazione incontrollata, in cui le aziende avevano raggiunto valori di borsa notevolmente sovrastimati. Erano venute a galla le crepe del sistema capitalistico e del consumismo: la produzione di massa aveva generato dei surplus di prodotto che restavano invenduti – nonostante il crollo dei prezzi – principalmente a causa delle difficili condizioni economiche di una grossa fetta di cittadini, che viveva con redditi inadeguati a permettere loro una vita dignitosa. Emergeva così il grande abbaglio degli anni Venti, in cui la vera prosperità era stata in realtà prerogativa soltanto di una certa fascia della popolazione.
La crisi, fu colpevolmente sottovalutata da Hoover, il quale pensava, almeno inizialmente, di poterla contrastare con surreali appelli all’ottimismo. La situazione, invece, era disperata, come dimostravano i milioni di disoccupati e di poveri che affollavano le mense di carità.
La crisi si autoalimentava in un drammatico circolo vizioso, fomentando lo spettro della rivoluzione comunista. In quel contesto, fu gioco facile per il democratico Franklin Delano Roosevelt ottenere l’elezione alla presidenza nel novembre del ‘32, contro un Hoover che aveva perso tutta la sua credibilità (a Roosevelt sarebbe bastato arrivare vivo al giorno delle elezioni, diceva il suo vice). La Grande Depressione mieteva i suoi drammi proprio mentre l’Unione Sovietica stava sperimentando l’efficacia del piano quinquennale staliniano. Quando a gran voce (persino da parte dei conservatori) si chiese di studiare qualcosa del genere anche per gli USA, il neoeletto Roosevelt elaborò il New Deal, un piano per rigenerare l’economia americana con una serie di iniziative pubbliche. Uno dei dogmi del liberismo economico, quello del laissez-faire, del non interventismo dello Stato, veniva clamorosamente accantonato. Pur non privo di errori ed incongruenze, il New Deal avrà un successo pressoché miracoloso, risollevando in modo relativamente rapido le sorti del Paese e garantendo a Roosevelt l’immortalità politica.
«L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio». Questo versetto dell’Apocalisse di Giovanni (14:19) ispirò Julia Ward Howe per l’incipit di The Battle Hymn of the Republic, celebre canzone patriottica americana dei tempi della Guerra civile, che cita quei “grapes of wrath”, i grappoli dell’ira, da cui il futuro premio Nobel John Steinbeck prese a sua volta spunto per il titolo della sua più celebre opera, uscita nel 1939. Tradotto da Carlo Coardi con il titolo Furore, il libro venne pubblicato in Italia nel 1940 con i pesanti tagli imposti dal MinCulPop fascista. Soltanto recentemente, nel 2013, l’opera è stata riedita con una nuova traduzione, a cura di Sergio Claudio Perroni, che ha restituito ai lettori italiani la genuinità del romanzo originale. Vincitore del premio Pulitzer, categoria Novel, The Grapes of Wrath venne rapidamente portato sul grande schermo – visto anche il successo di pubblico – dalla Twentieth Century Fox, che affidò la regia a John Ford, reduce dal successo di Ombre rosse (Stagecoach) e Alba di gloria (Young Mr Lincoln), entrambi usciti nel 1939. Di quest’ultimo, Ford conferma il protagonista Henry Fonda, il quale, smessi i panni del giovane Abramo Lincoln, veste quelli del proletario Tom Joad, uscito di prigione dopo una condanna per omicidio (per legittima difesa) e tornato dalla sua famiglia in Oklahoma.
Sono gli anni immediatamente successivi alla crisi del ’29 e i Joad non se la passano per niente bene: alle miserie della Grande Depressione si è aggiunto il flagello del Dust Bowl, le famigerate tempeste di sabbia che colpirono le praterie statunitensi negli anni Trenta. Il terreno reso incoltivabile e le banche che espropriano le terre degli agricoltori costringono la famiglia Joad a emigrare verso ovest, attratti da volantini che promettono lavori ben retribuiti. Partiti per la California, i Joad scoprono, dopo un viaggio estenuante (accompagnati dalle nostalgiche note di Red River Valley), che la situazione è ben diversa da quella immaginata e lo spettro della miseria pare scendere ineluttabile su una famiglia ormai rassegnata al peggio. Nelle vicende della famiglia Joad – e in generale in quelle degli Okies (un termine spregiativo riferito agli emigranti dell’Oklahoma ma che finì per essere affibbiato anche a quelli degli Stati vicini) – non può non ravvisarsi un prolungamento dell’epopea west, anche se stavolta i motivi delle emigrazioni di massa verso occidente sono parzialmente diversi rispetto a quelli che spinsero i pionieri a colonizzare le terre dell’ovest. Per certi versi la stessa scelta di affidare la regia al Maestro di Cape Elizabeth, colui che con Ombre rosse aveva definito i canoni del western dell’età classica, colui che amava presentarsi dicendo «Mi chiamo John Ford. Faccio western», si è rivelata in ciò emblematica. Il viaggio verso occidente è del resto il principale elemento di congiunzione tra Grande Depressione ed epopea del west. Nel film la diligenza è sostituita da un camioncino barcollante, che tanto ricorda i mezzi utilizzati dai pionieri.
I Joad sono i miserabili del Novecento, e la miseria è lo struggente tema di fondo di un’opera emozionante per tutta la sua durata, al di là di qualche passaggio ampolloso, di quelli che rendono decisamente meglio su carta che su pellicola, ma che erano del resto imprescindibili nella Hollywood della Golden Age. Il riferimento va ovviamente al discorso finale con cui Tom si congeda dalla madre (Jane Darwell, premiata con l’Oscar come miglior attrice non protagonista), braccato dai poliziotti che lo hanno scoperto e sono pronti ad arrestarlo per quello che è un curioso caso – giuridicamente parlando – di recidiva nell’omicidio per legittima difesa.
Come al solito Ford ci mette molto del suo per la riuscita complessiva dell’opera, conquistando uno dei quattro Oscar come Best Director vinti in carriera. La regia in pieno stile età classica di Ford, quello che spiegherà a un giovanissimo Steven Spielberg che sarebbe diventato un buon regista soltanto quando avrebbe capito che mettere l’orizzonte al fondo o all’apice dell’inquadratura è meglio che metterlo in mezzo all’inquadratura, non è mai appariscente, ma è perfetta nella sua disarmante semplicità. Poche volte Ford si concede qualche esercizio di stile, come in quella splendida carrellata (in soggettiva) dell’ingresso dei Joad nel campo che raccoglie tutti gli emigranti abbagliati dal miraggio di un lavoro. Il film, esattamente come il libro, strizza l’occhio a Franklin Delano Roosevelt (un presidente che al regista piaceva, nonostante Ford in futuro si dichiarerà repubblicano) e al suo New Deal: tutta la scena pseudo-utopica della parte finale ne è un evidente esempio. I Joad, dopo aver saggiato le pessime condizioni dei migranti nel primo dei campi in cui sono stati spediti, raggiungono un secondo campo, gestito dal Governo, che pare il paradiso in Terra (e gli occhi fuori dalle orbite durante il discorso del custode si sprecano).
Per lo più osannato dalla critica, The Grapes of Wrath è stato biasimato da alcuni per l’esagerazione nella rappresentazione della povertà degli Okies. Sono le stesse critiche mosse al libro, del resto, anche se c’è da dire che l’adattamento firmato da Nunnally Johnson antepone la descrizione alla denuncia sociale delle ingiustizie e delle ineguaglianze, pur presente in vari punti dell’opera. Tom Joad 55 anni dopo e ormai fantasma comincerà a riecheggiare di nuovo nelle parole e nella voce di Bruce Springsteen, con o senza Tom Morello, per quelle stesse lande (ancora) desolate e ingiuste sempre al fianco di ogni nuova vittima delle iniquità e dei soprusi del sistema, mentre John Ford tornerà a descrivere un’epopea familiare l’anno successivo in Com’era verde la mia valle (How Green Was My Valley, 1941), con un risultato complessivo probabilmente anche migliore di questo, sebbene slegato dai consueti scenari americani. Ma queste sono altre storie, in cui la famiglia Morgan, a differenza dei Joad, non è afflitta dalla miseria, ma la dignità umana dei personaggi è la medesima. Quella di epoche che sembrano oggi così remote, cancellate dalla frenesia della modernità.
Vincenzo Chieppa