18 Dicembre 2019 -

SOFÀ (2019)
di Bruno Safadi

Avanti e indietro, il Tropicalismo non è mai morto e mai lo sarà. Può cambiare forma, ma la sua violenta irriverenza nel destrutturare tutto ciò che trova sulla sua strada rimane immutabile. Così è per Bruno Safadi, personaggio fondamentale all’interno del percorso dell’ultimo Julio Bressane (ma già vicino a Dos Santos come a Cardoso), visionario e originalissimo autore di questo Sofà, film ostinatamente locale e al contempo così universale. Nel dramma di questo Brasile, in cui Bolsonaro è solo l’ultima espressione di una situazione già degenerata nel periodo delle grandi opere, la metafora e il linguaggio paiono essere le uniche due armi possibili di lotta. È in questo stato sospeso di perdizione che una ragazza e un ragazzo si incontrano in fronte al mare. Quasi dopo (o, meglio, durante) un’apocalisse in cui è rimasto ben poco del mondo precedente. Ed ecco quindi il regno dell’immaginazione (e dell’immaginario) a scrivere un’altra versione di questa esperienza, a dare una nuova linfa alla possibilità. «È un film di resistenza, realizzato con le mie risorse e girato in sei giorni. È una parodia tropicalista caricaturale dell’attuale Brasile, ispirato al libro Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza di Georges Didi-Huberman. Un’insegnante e un pescatore combattono contro il governo che privilegia l’élite economica del Paese». Le parole di Safadi sono fondamentali per iniziare questo viaggio minimale ed esperienziale, breve ma intensissimo, che lascia senza fiato.

L’incontro e la spiaggia, l’attesa e la rivelazione. Il detour di Joana e Phrao, la conoscenza dell’alfabeto, lo spostamento. Una nuova educazione sociale (ma anche sentimentale), alla presenza del sofà come oggetto/soggetto, luogo e casa, “pesante” metafora per la riscrittura possibile di una Storia rivoluzionaria, che ri-guarda il passato e rimane al contempo così proiettata al futuro. Appare tutto come una questione di identità, nell’azione (a tratti vorticosa, vedi l’astrazione della sparatoria) così come nei momenti di riflessione espansa. E poi il ritorno di una figura gargantuesca come quella del sindaco (riemersione del cinico O Prefeito sempre di Safadi), l’evocazione dell’anima pulsante di Giovanna d’Arco (insegnante e demiurga), la struttura disseminata di inserti e connessioni. Una parodia surreale e picaresca, intarsiata tra i generi e l’urgenza, in cui l’atto di recuperare la propria casa diventa esperienza totalizzane della realtà e osservazione deviata di una società tutta (anche mediatica) terribilmente allo sbando. Un atto di cinema totale, che in prima mondiale fra le Onde del 37mo Torino Film Festival mostra come l’esperienza udigrudi o marginal (due etichette che comunque non rendono assolutamente merito a questa straordinaria scheggia impazzita all’interno del modernismo cinematografico mondiale) ancora possa risultare urticante al concetto del potere e della sua rappresentazione. Ogni tassello dialoga nel comporre il successivo e così via, nella ricerca di una struttura pulsante e metamorfica; la comprensione della struttura passa attraverso lo stesso atto della sua creazione.

La questione principale è sempre quella legata al linguaggio, alla metamorfosi di esso, alla costruzione che passa attraverso collage e viraggi, vertiginosi stacchi di montaggio e piani sequenza, cambi di formato e mascherini. Caldi e freddi, dritti e rovesci, slogan e incontri, con una straordinaria gestione della color correction che rievoca il cinema folle e miracoloso di Rogerio Sganzerla per mettere in scena l’ipocrisia dell’oggi, l’illusione, il sistema. Appare come un film verticale, Sofà, che pensa il cinema attraverso l’ideologia di una rappresentazione, che illumina la potenza della parola (e dell’alfabeto) andando alla radice dell’identità di un immagine. Un atto di rivolta, anzitutto del pensiero, dove la forma sogno dilaga e assorbisce tutto (dai cambiamenti climatici alla violenza dell’esercito, dal dramma abitativo a quello educativo). Nel dualismo tra sistema ed eccesso – sintassi che Didi-Huberman mutua proprio da Bataille – questo film sistematico squarcia la struttura attraverso l’eccesso, conscio di trovarsi all’interno di una società complessa, in cui solo l’arte può produrre qualcosa di nuovo. Sarà lo stesso Didi-Huberman a dire «le lucciole sono state vinte, annientate, trafitte da uno spillo o seccate dalla luce artificiale dei riflettori, dall’occhio panoptico delle telecamere di sorveglianza e dall’agitazione mortifera degli schermi televisivi […] nelle società del controllo, non esistono più esseri umani, più nessuna comunità vivente […] I barlumi sono scomparsi, insieme con l’innocenza condannata a morte». Combattere questo forse non significherà fare la rivoluzione, ma per lo meno vuole dire sopravvivere. Nella cornice di questa favola drammatica sta la chiave del tutto; il sacrificio di lei non sarà vano, perché lui ora sa scrivere, annotare, ricordare. Tramandare la Storia è renderla viva, come strumento fondamentale per affrontare ciò che ci circonda. E questo gioco fra linguaggio e memoria è l’eredità di ogni avanguardia, la sua presenza ancora pulsante nell’oggi. Ecco che sullo schermo nero compare qualche lucciola, si accendono barlumi come una rete di segni e simboli, come una costellazione. Ecco l’innocenza, ecco la luce; un altro giorno (in qualche modo) sarà.

Erik Negro

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