29 Novembre 2019 -

LA PELLE DEL TEMPO (2019)
di Salvo Cuccia

È il lato emulsionato della pellicola, La pelle del tempo. È quella striscia apparentemente infinita di fotogrammi spesso simili ma mai davvero perfettamente uguali, fisici e quindi fisicamente biodegradabili fino a scomparire, che nel percorso di luce dal ticchettio del proiettore fino allo schermo diventano immagine e passione irrefrenabile, ossessione, voyeurismo, sguardo, desiderio, feticismo. Specialmente quando le immagini, proiettate e poi rimaste per più di vent’anni nel cinema di famiglia che il regista e videoartista Salvo Cuccia ha sempre assiduamente frequentato nella sua giovinezza palermitana, provengono da un campionario di vecchi film pornografici in pessimo stato di conservazione. Film di corpi, di gemiti, di pelle, di sudore, di estasi, di (veri/falsi) orgasmi, ma anche di code e di beep per sincronizzare i proiettori, di countdown al termine dei quali aprire la tendina e di fuori quadro da correggere, di forme pure e di colori che si ossigenano, si arrossano e mutano, fino a diradarsi e dissolversi nelle nebbie granulose della sindrome acetica. Trasformando l’amore fisico in pura macchia di pigmento, e quella vecchia cabina di proiezione un po’ umida sul retro della piccola sala di Villafrati, fondata dal nonno di Cuccia e chiusa a metà degli anni Novanta dopo quasi mezzo secolo ad alternare capolavori d’autore ed erotismo più o meno esplicito, in un archivio di frame rimasti tagliati dalle rotture o dagli smontaggi dei rulli, di trailer, di code, di emulsioni graffiate e di intere bobine dimenticate.

«Questo film è fatto al 100% con materiale riciclato», premette Cuccia sin dalle primissime battute del suo nuovo cortometraggio, presentato fra le Onde del 37mo Torino Film Festival, insieme alla Megrez quarta delle Vaghe stelle di Mauro Santini, a La notte salva di Boccassini e al magnifico e doloroso lungo Padrone dove sei di Carlo Michele Schirinzi, in un eccellente programma costruito da Massimo Causo e Roberto Manassero su corpi e desideri, con opere differenti che dialogano fra loro costruendo e stratificando in tutte le sue complessità un discorso in qualche modo condiviso. Prima parte di un percorso installativo su corpo, tempo e desiderio che prevederà in futuro altri montaggi e performance crossmediali di musica, cinema, oggetti e teatro, La pelle del tempo elimina o quasi la pornografia dai suoi residui per creare una vera e propria orgia di frammenti, immaginazioni, carne, sfioramenti, labbra e bisogni. Con immagini – quelle immagini che sono al contempo di una memoria personale, familiare e archivistica da esercente, di una passione cinefila verso ogni fotogramma e di una pulsione erotica collettiva e mai dimenticata – che diventano altro, inafferrabili e subliminali, rielaborate e sovrapposte fino a trasformarsi in radici e memoria, in una cinefilia infinita, nel feticismo verso la pellicola, nel ticchettio dei proiettori, nelle voci dei trailer e nei difetti di lettura della banda audio. In graffiti di un’espressività primitiva, sedimentati nella memoria e accumulati su un’emulsione sempre più degradata, distrutta, ormai quasi invisibile nei contorni che non esistono più eppure più che mai puramente visiva nelle sue nuove ricombinazioni di forme e colori, punto d’incontro di corpi e materiali resi fuori fuoco dallo scorrere del tempo fra le sculture classiche e Caravaggio, fra le pitture rupestri e Goya, fra Courbet e Francis Bacon.

È fatta di corpi che si abbracciano e si ritrovano, La pelle del tempo. È fatta di frammenti di coito che si accumulano negli archivi e nella memoria fino a diventare altro e nuovo incontro amoroso mai avvenuto, impossibile, bellissimo. Come un quadro in movimento di forme e corporeità purissime, come un’inquadratura mai girata, come un dipinto mai realizzato. Come un brandello di memoria che in qualche modo, intaccato dai segni del tempo, modificato, ma ancora materico, è sopravvissuto ai decenni. Come lo sguardo e come il desiderio, come la sedimentazione di una passione e come un archivio che dischiude i suoi fotogrammi di tempi che non torneranno mai più. È uno studio fra la fisicità dell’immagine e la fisicità del corpo, quello di un Salvo Cuccia sempre più poliedrico fra documentari (Frank Zappa, De Seta, Bordonaro), finzione (Lo scambio), linguaggi e ricerca sperimentale di forme, fra il campo e il fuori campo, fra il voyeurismo e l’immaginazione, fra il visto e il non visto, fra il guardare e il sognare. Fra il gemito e il trascinarsi della pell(e)icola, fra il tempo umano e il tempo cinematografico, fra l’eccitazione e la rappresentazione. Fra ciò che rimane e ciò che si è distrutto, lasciando la sua ombra visiva e sonora come un nuovo significante puro da trasformare in nuovo messaggio e significato. Come una sacra (e blasfema) Sindone su celluloide che nasce dal coito e dagli organi sessuali, macchia informe più che immagine, astrazione indistinta di un’estasi, due, tre, destinate a scomparire nelle caducità dei materiali, e quindi della memoria. Fra triacetato, luce, immaginazione, visto e non visto, mostrato e intuito, in una babele di formati, forme e colori, fotogrammi strisciati, ripetizioni, voyeurismi e orgasmi dissolti in altri brandelli d’orgasmi. Un’Origine del mondo in quindici minuti di ossessioni, di ideali associazioni di idee e di pellicole diverse, moltiplicate e affiancate come in un prisma. Fra baci e flicker, (s)oggetti e natiche, fuori quadro e capezzoli, titoli e passi ridotti. Desideri di una luce ipnotica da non spegnere mai, per nessun motivo. Vincendo il tempo, forse.

Marco Romagna

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