È una sorta di Snowpiercer in verticale, El Hoyo. Un’allegoria sociale dolorosa e chiarissima nella sua consapevole grana grossa, forse in questi tempi politicamente, culturalmente e umanamente bui più lucida che pessimistica, che sin dalle prime inquadrature si innesta nel filone della fantascienza distopica e carceraria mettendo in scena un mondo che rimane egoista e classista anche e soprattutto nella lotta per la sopravvivenza, incapace di spunti solidali a meno che non vengano imposti con la violenza, e anzi pronto a uccidere, umiliare, schiacciare e anche letteralmente cannibalizzare chiunque stia al di sotto di lui solo per il gusto di poterlo fare. Un mondo in cui ognuno pensa solo (letteralmente) alla propria pancia, nel quale anche rendersi conto della necessità di coalizzarsi e cooperare, parlare con gli altri e cercare di convincerli a essere umani e uniti sta diventando sempre più un vagito inascoltato, una presa di coscienza inutile fra i muri di gomma di chi non vuole nemmeno provare a capire, una vera e propria riattualizzazione nella società quotidiana della lotta contro i mulini a vento.
Basta uno spunto narrativo semplice e brillante, che immagina un carcere a più livelli, profondissimo nella sua struttura modulare di cui non si intravvedono né l’inizio né la fine, nei quali il cibo, solo sulla carta sufficiente per tutti, viene adagiato su una piattaforma imbandita che progressivamente scende dall’alto verso il basso. Ognuno mangia gli avanzi di chi sta ai livelli superiori, lasciando (o non lasciando) i propri avanzi a chi è detenuto ai piani inferiori. Una sola è la regola: non bisogna mai portare via nulla dalla tavola, si può mangiare quel che si vuole ma solo nel momento in cui la piattaforma è al piano, pena la morte cotti in forno o per assideramento per il cambiamento repentino e insostenibile della temperatura del livello del carcere. Per il resto vale tutto: vale uccidersi e vale uccidere, vale legare e vale sbranare – incarnazione più letterale dell’homo homini lupus – il proprio compagno di cella/piano, vale lo scontro fisico, valgono sangue, sputi e merda per rimarcare la distanza e negare ancora una volta, in una società sempre più lontana dai socialismi e anzi accecata dal populismo dell’odio razzista dei penultimi nei confronti degli ultimi, ogni spontaneità della solidarietà.
Nessuno o quasi fra i carcerati se la prende con il padrone, quell’anonima «Amministrazione» che rimane all’inaccessibile livello 0, nelle cucine, a imbandire senza alcun errore una tavola perfetta e meravigliosamente impiattata, che via via nella sua discesa in quella voragine centrale, “la fossa” apparentemente infinita del titolo originale spagnolo El Hoyo (mentre per l’internazionale è stata scelta quella The platform che nella fossa si muove), sarà sempre più corrotta e distrutta dall’insaziabile voracità di ogni uomo e dalla mancanza di rispetto per chi gli sta al di sotto. Fino a diventare ben presto una distesa di bicchieri rotti e disgustosi umori, di fronte alla quale digiunare, soffrire, impazzire. Diventare assassini per non essere assassinati, dal compagno di stanza o dal sistema.
«Ci sono tre tipi di persone», dirà subito il cinico omicida destrorso Trimagasi, reso pazzo dalle pubblicità televisive, al protagonista Goreng entrato volontariamente per sei mesi in cambio di un titolo senza conoscere a fondo le spietate regole del gioco, «quelli di sopra, quelli di sotto e quelli che cadono». Ogni primo del mese i detenuti, a negare loro ogni possibilità di progressione che non sia sperare nei favori del fato, vengono casualmente riassegnati a un altro piano, rimanendo insieme nella medesima coppia fino alla fine della pena detentiva o alla morte di uno dei due. Goreng si sveglia per la prima volta, con il suo pizzetto donchisciottesco e non certo a caso con in mano la sua copia di Don Chisciotte della Mancha portata come unico oggetto mentre quasi tutti gli altri detenuti hanno optato per una qualche arma, al quarantottesimo livello, nel quale, seppure schifosamente mangiucchiato, arriva ancora cibo. «Un buon livello», sottolinea il veterano Trimagasi, nel quale non c’è abbastanza tempo da passare a stomaco pieno per pensare di suicidarsi lanciandosi nella fossa e non c’è abbastanza fame per diventare vittime o carnefici. Ma il livello del mese successivo sarà il 171, senza alcuna possibilità che giunga alcunché da mangiare, e inevitabile inizierà la progressione sempre più sanguinolenta di ferite, mutilazioni, cannibalismo, accoltellamenti, carne umana ormai marcita e fantasmi che mai smetteranno di perseguitare nei sensi di colpa.
Lo spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, al suo ambizioso esordio al lungometraggio presentato in concorso al 37mo Torino Film Festival, guarda tanto al Cube di Vincenzo Natali quanto alla violenza mainstream statunitense e asiatica, delineando nel suo saliscendi di livelli un progressivo immergersi in un cinismo in cui non c’è più spazio per le illusioni, non c’è più spazio per il dialogo, non c’è più spazio per un’equa divisione delle risorse. C’è solo il lato più brutale, barbaro, istintivo e animalesco (per molti versi ferreriano, se si pensa a La grande abbuffata) del più egoistico nutrirsi del cibo già intaccato da chissà chi, con le mani e in piedi sul tavolo nel pochissimo tempo a disposizione. Sopperendo con creatività, immaginario e cristallina vis politica al budget non certo faraonico, e riuscendo a bilanciare la sua metafora cristallina con le dure e necessarie esplosioni di violenza, Gaztelu-Urrutia insieme agli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero trova una forma intermedia fra autorialità e intrattenimento per la quale è abbastanza assurdo che, a oggi, il film non abbia ancora trovato una distribuzione. Certo, come spesso accade nella fantascienza che parte da premesse e intuizioni interessanti senza però spingersi sino ai livelli dei più sublimi capolavori, El Hoyo non sa esattamente come concludere la narrazione una volta esaurita la sua metafora, non vede oltre la prospettiva del livello zero a parte l’incipit e un paio di ralenti della cucina, e quindi finisce, al momento dei titoli di coda, per risultare in qualche modo parzialmente incompiuto, troncato forse un po’ bruscamente a lasciare fuori campo la tappa successiva della lotta di classe. Limiti tuttavia assolutamente perdonabili in un esordio, tanto più in grado di mettere in scena così chiaramente e lucidamente un’intelligente allegoria politica e forte dell’indiscutibile merito, estraneo a molti suoi “colleghi” di genere, di non sbandare e andare fuori strada. Rimane un piccolo rammarico da capolavoro mancato pensando a come queste premesse avrebbero in potenza potuto condurre a un film ancor più stratificato, filosofico e profetico, e non soltanto “buono” come El Hoyo, ma in un mondo produttivo sempre più appiattito è sicuramente raro e apprezzato imbattersi in potenzialità autoriali così genuine e in potenza espandibili a dismisura nel prosieguo della carriera da regista, di fronte alle quali sarebbe profondamente sbagliato e fuori luogo porsi come critici iperciliosi.
Una madre alla disperata ricerca del figlio (o forse il figlio non esiste ed è solo una sua allucinazione?) mese dopo mese continua a sedersi sulla piattaforma e scendere livello dopo livello, uccidendo chiunque la ostacoli nella sua ricerca. Qualcuno la ignora, qualcuno la rapisce, qualcuno la affronta e puntualmente diventa cibo per i piani inferiori, ma solo Goreng realmente la capisce nell’intimo e sincero struggimento, instaurando quel rapporto quasi muto e impossibile fra gli unici due barlumi d’umanità rimasti in un luogo dove ogni reale collaborazione e ogni affetto sono proibiti dal sistema, conscio di aver eliminato l’unica vera arma che avrebbe il popolo per sconfiggerlo. Fino al (brutale) cambio di compagno di cella e alla risalita al livello 33, con l’inizio del tentativo, ovviamente frustrato dai (letterali e in italiano) vaffanculo degli altri piani, di razionalizzare spontaneamente le risorse.
Solo la minaccia (della merda cosparsa sul cibo) può costringere alla solidarietà, solo la violenza, solo il diventare uguali agli altri, assassini, cannibali, necrofili, affamati nella vana attesa di cibo del livello 202 oppure disposti a sacrificarsi e scendere dal (quasi) paradiso del 6 fino all’inferno. Bianchi e neri, insieme, nell’unica umanità. La spranga contro i più famelici è l’unico modo per distribuire cibo a tutti e far tornare in cima fino a quel livello 0 dell’Amministrazione, insieme alla piattaforma, un chiaro messaggio per il sistema. Quello dell’inizio di una nuova e sempre più necessaria rivoluzione che dal basso, con la cooperazione, sta iniziando a sconfiggere le iniquità, la mancanza di rispetto, l’egoismo.
El Hoyo è un ultimo e tentativo disperato di lotta di classe, di recupero della giustizia e della solidarietà, di quel sostegno reciproco che sempre più, nell’Europa e nel mondo dei populismi di destra e delle nuove dittature militari che si stanno instaurando in SudAmerica nel silenzio dei media occidentali, sta venendo drammaticamente a mancare. Fra compagni di cella più o meno intelligenti e aperti alla condivisione, gradini più o meno alti della forzata piramide sociale e carceraria, e infiniti e inevitabili spargimenti di sangue. Perché la rivoluzione, anche e soprattutto nell’era dei politicanti su Twitter e dello sdoganamento di fatto degli odi razziali, non si ottiene con le parole, ma svegliandosi dal torpore per combatterli insieme. Basta aprire gli occhi e smettere per un attimo di pensare unicamente a riempire il proprio stomaco, per rendersene conto.
Marco Romagna