2 Novembre 2019 -

BLISS (2019)
di Joe Begos

È un fuoco sacro, l’ispirazione artistica. Un qualcosa per cui essere artisti vuole dire essere disposti al sangue, alla morte, alla possessione, all’autodistruzione. Un qualcosa di più importante e più necessario, una necessità fisica e corporale più bruciante della stessa vita, al di là di ogni bene e di ogni male. Vale tutto, per l’atto creativo. Vale vivere e morire, valgono l’estasi e il dolore, valgono le visioni e la psichedelia. Valgono l’alcool e le droghe, valgono la depressione e il sesso, vale non mangiare e non dormire, vale non distinguere più la realtà dall’immaginazione. Valgono ogni materia e ogni materiale, vale vampirizzare e rielaborare in nuova forma gli immaginari e gli stili altrui, così come vale, o meglio è spesso assolutamente necessario, sputare sangue pur di perseguire la più intima necessità di espressione, pur di assecondare e portare a termine lo slancio artistico. Basta sapersi spingere al di sotto della superficie. Perché sarebbe semplice vedere, in Bliss, solo la spirale allucinata dal gusto iper-pop di edonismo psichedelico e supercitazionista, che a partire dalla droga immaginaria che dà il titolo al film fa riemergere, fra crisi di vomito, amplessi magari a tre e uno stato di trance tossico/vampiresco/satanica durante la quale il dipinto diventa il suo capolavoro, il talento perduto della protagonista. Ma sarebbe anche profondamente ingeneroso e non analitico fermarsi alla forma – e magari a qualche sbandierata ineleganza che nel montaggio rutilante e nei continui movimenti di macchina esagera fra l’hipster e il tamarro – senza penetrarla nella, mai in Begos (e in molti fra gli autori ai quali evidentemente guarda), così densa e per molti versi teorica sostanza che porta in dote.
Nella naturale eppure sorprendente prosecuzione del trentaduenne Joe Begos sui sentieri cinematografici di deflagrazioni e cinepugni visivi già intrapresi con Almost human e The mind’s eye ci sono infatti sempre sesso, droghe, flicker e luci al neon, ci sono sempre le inquadrature e atmosfere “rubate” ad altri autori e gli insistiti e roboanti accompagnamenti musicali dal noise al black metal, c’è sempre un gusto (a tratti probabilmente pure troppo) vicino al videoclip e alle sottoculture underground, c’è sempre l’omaggio fotografico al Technicolor degli anni Settanta-Ottanta e c’è pure, fra il “Diablo” con cui viene classificata la partita della variante più forte del bliss e il Satana fatto di dannati doloranti che prende forma da praticamente da solo sulla tela durante lo stato di incoscienza della pittrice, sempre lo stesso topos di archetipica fascinazione nei confronti del Male. Ma non c’è quasi più nulla, in quello che parrebbe essere il decisivo passo avanti verso la consacrazione autoriale, di mero gioco all’immagine inconsueta. Non c’è quasi più nulla di realmente eccessivo, immotivato, magari strabiliante ma a conti fine a se stesso. Nemmeno nei titoli di testa, praticamente un corto sperimentale nei loro colanti cromatismi cangianti e nervosi. C’è, anzi, una maturità inedita, un brillante lavoro di calcolo e di astrazione, che scandisce nei significanti delle tante trovate visive e delle tante funzionali citazioni di Bliss, in prima italiana fra le proiezioni di mezzanotte del Trieste Science+Fiction Festival 2019, i significati di un ben preciso e personalissimo discorso, anche e soprattutto linguistico, sull’arte in generale e sul cinema, sull’ispirazione e sul blocco, sulla sofferenza e sull’ossessione, sulla vera e propria dipendenza dal proprio ego di artista e su quella forza incontrollabile che ti muove la testa e le mani quando è giunto il momento di mettersi all’opera. Fino all’incredulità e alla soddisfazione di fronte all’opera realmente finita. O forse al dolore del distacco, come una neomamma può soffrire la mancanza del pancione per qualche tempo dopo il parto.

C’è prima di tutto il The addiction di Abel Ferrara, nella lucida cinefollia di Bliss, con quelli che erano i vampiri di quella New York in bianco e nero quasi imbibiti in negativo dalle saturazioni calde e fluorescenti delle illuminazioni del DOP Mike Testin. Ci sono, di gran lunga superiori e ben più sensate delle originali, le droghe e le allucinazioni estetiche di Gaspar Noé che un Bliss vorrebbe da sempre farlo ma non ci è mai riuscito, e ci sono, fra sostanze e viaggi lisergici, le vertigini visive di Harmony Korine e dell’ultimo Nicolas Winding Refn. C’è un postmoderno à la Guy Maddin che, a differenza di quello spesso furbetto di Guy Maddin, non vuole semplicemente sedurre lo spettatore rifacendo il passato, ma che lo prende e totalmente lo ricontestualizza per renderlo parte coerente e necessaria di una riflessione più ampia e intelligente. E poi c’è, complice la straordinaria e corporale interpretazione della star televisiva Dora Madison che evidentemente con quegli occhi spiritati guarda a quelli di Isabelle Adjani, Possession di Żuławski. C’è senza dubbio, nella coppia androgina con gli occhiali da sole che infetterà la protagonista in un threesome, ma anche nelle corse in auto con il mento insanguinato, il Jim Jarmusch di Only lovers left alive, c’è molto Trainspotting non solo nei bagni, ci sono le macchine da presa già attaccate da Darren Aronofsky agli attori di Requiem for a dream e ci sono ambienti e situazioni che ne ricordano invece il più recente mother!. E c’è pure la doccia di sangue depalmiana di Carrie, c’è il ventilatore di Apocalypse now che dà inizio al delirio, ci sono le zenitali e i pavimenti a esagoni bianchi e neri del Suspiria di Guadagnino, e non manca nemmeno qualche strizzata d’occhio, fra le altre, al body horror di David Cronenberg. Riferimenti, fra capolavori e tentativi non riusciti ma sempre di cifra profondamente autoriale, che sono tutto fuorché casuali, e sta proprio nella loro reale e personale rielaborazione in contesti più o meno diversi (fino a trasformarne in molti casi i difetti in pregi) il cuore di un discorso complesso, che per parlare di immaginari, stili, ispirazioni e distruzioni crea un pastiche iconoclasta di immaginari e stili dai quali prendere ispirazione e poi distaccarsi, che per parlare di fisicità, corpo e materia (la tela, i colori a olio, il sangue e gli umori) sceglie coerentemente una fisica e granulosissima pellicola 16mm “sporca” nei contorni come negli ambienti, e che nel suo conscio vampirizzare il cinema del presente e del passato per estrarne la fascinazione e trasformarla in altro inizia la sua protagonista a un vampirismo atipico e allucinato, per poi magari farle vomitare sangue mentre consapevolmente si annulla e si autodistrugge pur di non fermare la forza oscura – se non addirittura maligna – dell’arte, croce e delizia, necessità e dipendenza, autoaffermazione e ossessione. Droga più potente di ogni altra droga.
Perché non è una ricerca di soldi, quella di Dezzy. Certo, anche e soprattutto per via del suo blocco artistico, in una Los Angeles underground nerissima e forse mai così lontana dalla sua tradizionale iconografia, è passata dagli allori per una prestigiosa mostra personale a non riuscire più a pagare l’affitto, ma non è economico il vero motivo per cui quella tela, da chissà quanto tempo ferma nel suo sfondo, deve essere ultimata con un soggetto ancora da capire. Dezzy ha bisogno di vincere la sua incertezza, il suo vuoto, le lunghe ore immobile con in mano il pennello ormai secco di fronte al dipinto iniziato e non concluso. Arrogante, sprezzante, incauta, nervosa, sboccata, edonista sempre pronta ad arrotolare una banconota per pippare un altro po’ di piacere e di dolore. Da artista vera e tormentata, che ama il sesso e non disdegna le droghe, e che pur di ricominciare a sentire il crepitare del suo fuoco interiore, e di mettersi a servizio di un dipinto che ha solo bisogno di una mano per essere terminato, sarà disposta ad accettare ogni sostanza, ogni esperienza, ogni conseguenza. Ogni dolore dolore e ogni dipendenza – dalle droghe, dal suo quadro, dall’eros, dal suo ego di artista –, ogni blackout e ogni crisi d’astinenza, ogni estasi e ogni (p)ossessione. Ogni risveglio nuda e ogni goccia di sangue, ogni smarrimento e ogni telefonata disperata, ogni egoismo e ogni senso di colpa che si ripresenta strisciante in tutto il dolore causato. Ogni trasformazione delle sue conoscenze in semplici macchie di colore, in tempere a olio con cui dipingere l’inferno, o forse nel sangue di una sete eterna e maledetta. Quella della possessione artistica, quella della manifestazione suprema, quella dell’ispirazione. Per la quale vale tutto e dopo la quale vale tutto. Anche sparire, forse, lasciando dietro di sé gli ultimi granelli di bliss Diablo e un diavolo vero, inquietante e rosso come il fuoco, che svetta gigantesco sulla tela. Come un film, appena nato e già di culto, sfrenato, viscerale e martellante, che fa di tutto per sembrare un divertissement horror di pura exploitation e di puro intrattenimento, e che invece si ferma da qualche parte e continua a scavare a lungo.

Marco Romagna

“Bliss” (2019)
80 min | Horror | USA
Regista Joe Begos
Sceneggiatori Joe Begos
Attori principali Dora Madison, Tru Collins, Rhys Wakefield, Jeremy Gardner
IMDb Rating 5.5

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