«Sunrise, sundown
The streets gone golden brown
Auburn skies above
I’m searching for my love
I’m searching for my love
There goes my miracle
Walking away, walking away
There goes my miracle
Walking away, walking away»Bruce Springsteen, There goes my miracle
Parte da molto lontano Western Stars. Come quegli orizzonti sterminati che gli fanno da sfondo, come la sua profonda malinconia, come la luce calda dei suoi tramonti, come la sua debordante sincerità. Di certo parte da molto prima delle tredici tracce del recentissimo, omonimo e introspettivo concept album, il diciannovesimo di Bruce Springsteen fondato sulle sonorità Sessanta-Settanta di Roy Orbison, Glen Campbell, Jimmy Webb, Billy Joel, George Jones, o ancora dell’Harry Nilsson di Everybody’s talking così limpidamente omaggiata e ripresa in Hello Sunshine. E parte anche da molto prima che Springsteen on Broadway si configurasse, insieme alle parole dell’autobiografia Born to run, come il campo del bilancio introspettivo del quale un Boss fresco settantenne non può ora che delineare, in musica e finalmente anche in immagini, i controcampi. Perché era da sempre solo una questione di tempo, l’esordio alla regia di un lungometraggio del cantastorie Bruce Springsteen. Probabilmente sin dal ’73 delle prime cartoline in vinile da Asbury Park, o forse da prima ancora, dalle prime esibizioni, dalle prime serate chiuso in stanza a comporre una canzone, dai primi sogni da bambino. Una tappa in qualche modo necessaria e perfettamente consequenziale dopo un’intera carriera musicale di brani da sempre concepiti come se fossero cinema, sempre ragionando per immagini e narrazioni, e non certo per caso molto spesso collaborando con grandissimi registi, da Brian De Palma (Dancing in the dark) a Jonathan Demme (Streets of Philadelphia, Murder Incorporated, If I should fall behind e American Skin-41 Shots), passando per Sean Penn e Tim Robbins, per realizzare i videoclip. Già cinque anni fa del resto, con lo splendido video di Hunter of Invisible Game vero e proprio cortometraggio, il rocker del New Jersey aveva ampiamente dimostrato nel suo esordio assoluto, già in co-regia con il fedele sodale Thom Zimny che lo filma (Broadway compreso) ormai dal 2007 e già con quelle strade polverose che sono la più intima essenza di Western Stars, di saper perfettamente maneggiare il linguaggio delle immagini, come se il suo rock e le sue ballate fossero sempre state – ben al di là, oltre alla presenza di I’m on fire nel morettiano Palombella Rossa, dei vari Philadelphia, The Wrestler, La 25ma ora e ovviamente Blinded by the light per i quali Springsteen ha composto le musiche – una grande colonna sonora che ha sempre evocato e richiamato immagini sulle quali ulteriormente stratificarsi, e come se le sue leggendarie esibizioni da più di tre ore di scalette totalmente stravolte da una sera all’altra fossero sempre state (già) puro cinema. Magari già con quei cavalli simbolo di libertà e di purezza che incarnano la nostalgia verso una wilderness ormai irrimediabilmente perduta, magari già con quegli oggetti e con quelle fotografie con cui tornare a un tempo passato, e magari già con l’inedita necessità di Springsteen di inforcare gli occhiali per poterli mettere del tutto a fuoco. Western Stars, presentato alla Festa del Cinema di Roma in attesa della sua distribuzione nelle sale, parte da quarantasei anni di canzoni e di visioni, di personaggi, di storie, di metafore, di alter-ego, di un’epica per molti versi herzoghiana (come puramente herzoghiani sono i droni che inseguono le Chevy e le Corvette nel deserto) nel riplasmare una realtà con la pura fantasia e nella capacità di ritrovare e raccontare se stesso in altri nomi e situazioni fino a giungere a un’emozione, a un effetto, a una verità più vera del vero, o per lo meno a una più giusta domanda da porsi. Sul viaggio, sull’amore, sull’illusione, sulla famiglia, sui sogni infranti, sulla solitudine, sul crepuscolo. Parte da diciannove album di automobili in corsa, di strisce d’asfalto da aggredire, di disoccupazioni, di sguardi sulla realtà, di nomi immaginari e di vicende (mai) accadute con i quali sempre scoprire e raccontare qualcosa di se stesso e della sua personalissima America per universalizzarsi, e così giungere a chiunque e alla sua personalissima America. Con gli errori, i dolori e i fallimenti dei personaggi, di chi li canta e di qualsiasi persona lo ascolti. Parte dalle fughe dalle delusioni sentimentali dei tempi che furono, parte dal quotidiano rinnovarsi dell’amore verso la moglie Patti Scialfa e da un’America rurale che non esiste più, parte dai bar nei quali fermarsi e ascoltare lungo la strada chiunque abbia avuto voglia di imbracciare una chitarra e dal fissare con gli occhi velati di lacrime lo specchietto retrovisore, a cercare ancora Clarence Clemons, Danny Federici, lo stesso Jonathan Demme, quegli amici con i quali Springsteen pensava che avrebbe trascorso tutta la vita e che invece non ci sono più, e ogni giorno si ripresentano fra i rimpianti e le mancanze come ferite mai del tutto rimarginate.
Se dal palco del Walter Kerr Theatre di Broadway Springsteen innestava, e da narratore consumato splendidamente infiocchettava, il racconto della sua vita nelle tante tappe della lunga carriera, in Western Stars, film-concerto di inserti visivi e commenti a cuore aperto che è anche e soprattutto introspezione, memoria, confessione, narrazione, rimpianti e immaginario, il Boss si concentra sempre più intimamente, fino all’inevitabile commozione del crescendo finale che inanellando Stone, There goes my miracle, Hello Sunshine e Moonlight Motel cancella con la sua dolorosa e assoluta sincerità ogni possibile dubbio di schematicità della struttura filmica, sulla sua intimità di uomo, di marito, di depresso, di americano fragile che ha visto il “sogno” sgretolarsi fra le dita, e che ora scava e si riguarda dentro per cercare di capire come il mondo intorno sia cambiato. Fra le nostalgie e i rimpianti, con uno sguardo malinconico che va disperatamente alla ricerca dei frammenti residui di quegli orizzonti oramai lontani di Fede e speranza, di quel mito della frontiera ormai sfilacciato e annegato nel whiskey lungo le tracce sempre incerte di ciò che rimane della forza dell’amore. Le sue parole lo mettono progressivamente sempre più a nudo nelle introduzioni alle canzoni, mentre le immagini del concerto, con Western Stars eseguito integralmente di fronte alle macchine da presa e personalmente sviscerato nel simbolico fienile di casa Springsteen con l’accompagnamento di un’intera orchestra d’archi, si alternano ai suoi luoghi, al suo cappello da cowboy, ai suoi cavalli, ai suoi ricordi, alle sue lunghe traversate al volante, alle tante immagini della sua gioventù e del suo amore con Patti. Accompagnate da un monologo giocoforza più piccolo e raccolto rispetto a quello di Springsteen on Broadway che, dove Western Stars presenta un album, aveva modo di muoversi lungo tutta una carriera, ma cinematograficamente ben più elaborato della mera ripresa di un evento, con la pura ed estetica finzione in controluce degli inserti western e con le verità cristallizzate nel tempo che scorre delle immagini d’archivio. Dalle «pietre in bocca» di Stones a rappresentare il contrappasso di ogni bugia ai tramonti di un’epoca innestati nelle vicende di autostoppisti, stuntmen e di attori western ormai finiti fra stivali e viagra (con la mente che corre subito ai tarantiniani Cliff Booth e Rick Dalton di Once upon a time… in Hollywood), Western Stars è del resto un album già all’ascolto mai così profondamente cinematografico e crepuscolare nei testi e nei personaggi raccontati, nel tempo che passa e nelle disillusioni, nell’impossibilità di trovare un proprio posto in una società che si sfalda e nei rimpianti di una vita. Una raccolta di brevi storie di sogni incompiuti, di fallimenti, di sconfitte, di dolori, di esseri umani dallo spirito ancora intatto in un’America che di quello spirito non ha più quasi nulla. Non importa – e infatti non sempre Springsteen lo dice – cosa ci sia di vero e cosa ci sia di inventato: conta il senso delle storie, conta il simbolo che incarnano, conta la metafora che dipingono. Conta la loro potenza, la loro capacità di comunicare, emozionare, far pensare, creare vertigini e nuove immagini, ragionando fra politica e umanità sul mondo e sul tempo fino a disvelare le loro verità universali. Conta come quella che un tempo era l’infinita fiducia del «Baby, we were born to run» sia diventata «It’s the same old cliché, a wanderer on his way, slippin’ from town to town». Conta rendersi conto che in una vita passata a inseguire e cantare la strada quello che realmente si cercava era una casa, una stabilità, una realizzazione, un amore con cui vedere scorrere gli anni. Con la consueta capacità magica e sciamanica di Springsteen, inspiegabile al di fuori di una sua esibizione, di dare l’impressione a chiunque fra centinaia di migliaia di persone di stare parlando con la sua voce sempre più calda e morbida a uno ad uno, e con i suoi «one more time», questa volta dedicati all’assolo “western” di fisarmonica di Charlie Giordano che anche nella E-Street Band (coerentemente assente nel diverso stile musicale che vuole avere Western Stars, ma attualmente di nuovo in studio con Bruce per lavorare sul prossimo album e sul tour mondiale del prossimo anno) ha sostituito Danny Federici, ad allungare le emozioni e i momenti di maggiore intensità musicale in attesa del cenno sul quale cambiare. Basta un fienile, bastano pochi amici ai tavolini a far da pubblico, bastano un paio di Gibson acustiche da alternare e da alzare in verticale per dettare i tempi a tutta l’orchestra. Basta che la musica prenda il sopravvento, prenda vita propria, diventi altro, atmosfera, emozione, trasporto, cuore, necessario imprevisto. Altre immagini da sovrapporre mentalmente alle immagini, a Bruce e Patti giovani e innamorati al tavolino fra un bacio dietro al cappello e un sorriso in 16mm, e ora invecchiati insieme a bere al bancone mentre l’uomo delle pulizie ancora si barcamena fra i cavi. Un altro capitolo delle stelle western che si stagliano come un cavallo all’orizzonte, forse. Rilucente nel suo manto al sole, infinitamente sincero nel suo continuare a correre e a sognare nonostante tutto. E chissà che a questo punto prima o poi non si ripresenti alla porta del fienile, con le sue trecce e il suo sassofono, Big Man Clarence Clemons. «There goes my miracle. Walking away, walking away.»
Marco Romagna