20 Settembre 2019 - e

ROGER WATERS. US + THEM (2019)
di Sean Evans e Roger Waters

«Us and them
and after all we’re only ordinary men
me and you
God only knows it’s not what we would choose to do
forward he cried from the rear and the front rank died and the General sat,
and the lines on the map moved from side to side»
Pink Floyd, Us and Them

Era il sei luglio 1977 a Montreal, ultima (delle cinquantacinque) data dell’In the Flesh Tour, pochi mesi dopo l’uscita di Animals. Roger Waters già manifestava nei concerti precedenti instabilità e molta insofferenza (l’album, in cui lui credeva moltissimo, non era stato totalmente compreso mentre le loro performance divenivano sempre più imponenti e ingombranti), i rapporti con David Gilmour e Rick Wright iniziavano a sfilacciarsi in maniera sempre più consistente. Quel sei luglio, Waters interrompe l’esecuzione di Pigs On the Wing (part II) insultando un gruppo di fan esaltati; pochi minuti dopo, durante Pigs (Three Different Ones), il bassista guarda uno spettatore che oltrepassa la recinzione e gli sputa. Il bootleg di quella serata si intitolerà Who was trained not to spit on the fan. Nulla fu più come prima, da quella notte che (parole dello stesso Waters) vide idealmente nascere The Wall. Ci sono molte date nell’odissea floydiana – assolutamente unica, almeno per chi scrive, nell’espressione musicale e mediatica popolare del secondo Novecento – che appaiono come spartiacque. Basterebbe pensare al giorno in cui qualcuno sul bus decise di non andare a prendere Syd Barrett, o a quando lo stesso Syd – sette anni dopo – ricomparse ad Abbey Road per registrare le “sue” chitarre su Wish You Were Here tra le lacrime (e i sensi di colpa) di Roger e Rick, Nick e David. Per chi, come noi, con loro ci è cresciuto (forse anche così tanto da costruirci un film sopra) tutti questi frammenti emergono già nel primo attacco di Breathe, nella prima strofa, nella prima storia. Sì, perché pare proprio di respirare nell’aria, in quell’aria che nessun tempo e nessuno spazio potrà mai scalfire, in quella magia di un raggio di luce che diventa improvvisamente arcobaleno quando tutto è illuminato dal sole prima di essere nuovamente eclissato dalla luna. Quella storia, quella che i Pink Floyd hanno contribuito a scrivere (idealmente dall’allunaggio al crollo del muro di Berlino, eventi che ancora oggi guardiamo commentati dalla loro musica), che è un monumento alla società contemporanea, ai suoi voli interstellari come ai suoi segreti, ai suoi deliri rivoluzionari come al suo drammatico ritorno all’ordine.

«The Dark Side of the Moon was an instance of political, philosophical and humanitarian empathy that desperately asked to come out», disse sempre Waters, presentando il disco che più di tutti ancora oggi definisce le nostre ossessioni dello stare qui. In quel sei luglio Roger divenne in un certo senso Syd dopo averlo evocato in Dark Side (con Time che scorre mentre la canzone finisce, con i fili nel cervello di Brain Damage, con l’anatema di Eclipse), materializzato in Wish (in una sola nota e/o dell’album non esiste un attimo che non sia legato indissolubilmente al fantasma di quel pifferaio magico) ed espanso in Animals (la società, tutta, che ti fa impazzire prima che tu stesso puoi cercare di combatterla). Tutto quel peso esistenziale ora era diventato per Waters un mostro da esorcizzare, tanto da doverne costruire un muro nel tentativo poi di distruggerlo. Centinaia di pagine di testi, di arrangiamenti sempre più complessi, di densità di senso che si avvicina più all’opera totale rispetto ai canoni nel rock. Da quel sei luglio si arriverà al doppio album che chiuderà in un certo senso gli anni Settanta tutti, forse un po’ come Woodstock chiuse il decennio precedente. Lontani sono oramai i tempi di The Piper e della Swinging London, dei primi Light Show e dell’UFO Club, della provvisorietà di A Saucerful of Secrets e della sperimentazione radicale di Ummagamma, dei lavori con Antonioni e Schroeder, degli esperimenti di musica concreta e degli sconfinamenti sinfonico-progressivi, di Pompeii e di Echoes, la suite che – dopo Atom Heart Mother – fa mirabilnente da cerniera ideale a tutta un’epoca. «All alone, or in two’s / The ones who really love you / Walk up and down outside the wall…». Poi arriverà The Final Cut, un titolo che già dice tutto. Rimane dunque Gilmour, l’operaio che tiene aperta la fabbrica dei sogni dopo il fervore unico della meteora impossibile di Barrett e le costruzioni sempre più complesse dell’architetto Waters. Un ultimo momento assieme, il Live8 di Londra, sognando magari che tra quel pubblico di Hyde Park ben nascosto ci potesse magari essere anche Syd, poco prima di morire.

Dunque Us+Them parla di tutto ciò? Assolutamente no, ma la sua grandezza, forse il film più importante, sinceramente sperimentale e intrinsecamente politico di tutta Venezia76, è il riflesso dell’epopea floydiana e dunque tutto ciò si percepisce in ogni frammento. Perchè forse è anche questo stesso film che si spinge ben oltre il film-concerto, sorta di superamento e di controcampo ideale di Live at Pompeii e di Pulse, a nascere quel sei luglio di quarantadue estati fa, il giorno in cui Waters decise fondamentalmente che i Floyd da lì a poco non sarebbero più stati una questione sua. Un’esperienza immersiva e totalizzante di musica, immagini, colori e lucidità sociopolitica che si apre su una spiaggia – assai curiosamente simile ai luoghi utilizzati per le riprese di Louder than words (singolo tratto da The Endless River, 2015, l’album dedica a Wright), quella che sarà, con tutta probabilità, l’ultima pubblicazione ufficiale di materiale inedito della band – con una bimba che scruta l’orizzonte. La tracklist (BreathOne of These DaysTimeThe Great Gig in the Sky, Welcome to the MachineDéjà vuThe last refugeePicture that, Wish You were hereAnother brick in the WallDogsPigsMoneyUs and ThemBrain DamageEclipse) è da brividi; le invenzioni visive, fra fabbriche, maiali, prismi, bambini, Torri Gemelle affogate nel sangue e droni sulla Palestina, sono semplicemente sbalorditive (anche per merito di Sean Evans, degno successore di quel genio di Storm Thorgerson e del suo studio Hipgnosis), mentre le performance musicali, in testa la versione indimenticabile di Time, di livello assoluto. E Waters è sempre lì, fisico scultoreo, voce perfetta e nuove istanze da ribaltare – «Trump is a pig, pigs rule the world, fuck the pigs». Perché di mezzo c’è l’oggi, c’è Donald «Sharade you are» Trump che vomita veleno, ci sono i rifugiati di ogni parte del mondo nella disperazione e nell’indifferenza (quando non proprio insofferenza) del Potere, e soprattutto c’è la necessità di rimanere umani nel nuovo dramma del contemporaneo (muri e migrazioni, disuguaglianze e ambiente) da far esplodere. Non è solo una questione di rock’n’roll, anzi non lo è mai stata, per la band che è non ha mai avuto un volto ma è puro suono. È una questione di amore e di Resistenza, oggi come ieri, oggi più di ieri. Stay human, stay Roger Waters, stay Pink Floyd. «And if the band you’re in starts playing different tunes, I’ll see you on the dark side of the moon».

Erik NegroMarco Romagna

“Roger Waters: Us + Them” (2019)
Documentary, Music | N/A
Regista Sean Evans, Roger Waters
Sceneggiatori N/A
Attori principali Roger Waters, Dave Kilminster, Azzurra Caccetta, Bo Koster
IMDb Rating N/A

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