88:88 (2015), di Isiah Medina

88:88 è il numero che appare sulle sveglie digitali quando si rompono e non si può vedere che ora sia. 88:88 è il numero della disperazione che scaturisce dalla povertà, disperazione che si tramuta in sospensione del tempo. Il canadese Isiah Medina è un autore giovanissimo che studia matematica e filosofia (con dedizione particolare verso quella antica) e che fonde i propri interessi nelle immagini dei suoi film sperimentali. Il suo è un tempo sospeso, appunto, ed è il tempo di una generazione che decide di sospendersi, sospendersi in una filosofia della matematica dell’infinito visto non come un ripetersi ma come un rivoluzionarsi continuo. A Locarno68 abbiamo avuto lo spiacere di vedere (in parte) film come Te prometo anarquia che trattano le nuove generazioni di giovani disadattati come figure aliene, squallide e degradanti invece che come enti emotivi e umani, e Medina riesce a cogliere il punto in maniera decisamente anticonvenzionale.

Il suo film è un frullato di estetiche sperimentali disparate: si va da uno stile di montaggio che ricorda molto l’ultimo Jean-Luc Godard a grida di tristezza e voglia di rivoluzione, da attente letture di Platone a freestyle hip-hop che citano lo Wu-Tang Clan con la stessa fluidità con cui citano Alain Badiou. Medina usa la schizofrenia incoerente del montaggio godardiano per descrivere la follia sconnessa dei ritmi disperati della sua generazione, che campa tanto della filosofia quanto della tecnologia, tanto della cultura pop che li mantiene uniti quanto di quella forza primitiva da proletariato di strada. Infatti, i ritmi della vita di Medina sembrano essere descritti come quelli di un personaggio di The Wire, sospeso tra la retorica gangsta di un mondo distrutto e depresso, e quelli di un marxista furioso alla ricerca di un senso dell’esistenza da cercare tra le vene pulsanti della vita. La vita è qualcosa di triste e bellissimo allo stesso tempo: la bellezza non sta nell’immagine (o, al massimo, nel taglio di montaggio) ma nell’atto stesso di cercare la bellezza, spesso di non trovarla – e di questo l’autore è molto consapevole. Infatti per lui ad essere interessanti, più che le inquadrature, sono le maniere in cui sono sovrapposte: con massimalismo ermetico tutto sembra convergere in più direzioni imprecise, con il confondersi pastrocchiato dell’improvvisata carenza di direzione dei giovani senza futuro. 88:88 non ha una trama: è solo il delirio di un ideale e di un’ideologia che si confondono e che si perdono in se stessi e nella caotica formazione della loro cultura, che parte dalla filosofia violenta del vicinato e poi diventa Friedich Engels. Medina è un bolscevico geometrista, un piccolo e delirante poeta del digitale, che fa specchiare i fiori nel triste metallo del consumismo decaduto, che mostra i propri amici condividere il loro amore, che viene illustrato con la sincerità intimista di un vero amico, non certo di un voyeur. Il voyeurismo è applicato più che altro alla comunicazione non vocale, con le chat degli iPhone che riempiono tutto lo schermo con tristi annunci di amici finiti in galera o drammatiche liti sentimentali piene di paroloni e parolacce.

Sugli effetti sonori abusati da William Houston dei clipping., il fiume nevrotico del film di Medina si rivela tosto con la prepotenza di un incendio e tuona come un ammonimento per il presente e per il futuro. Non c’è morale né via di fuga: questa non è una storia che pone una conclusione, ma una riflessione che non tiene in considerazione i limiti narrativi di “inizio” e “fine”. L’infinito è creato con la sospensione, la sospensione è creata con il montaggio, il montaggio si smuove con fare virtuoso su giochi di luce esuberanti. È la cronaca funebre di una generazione tragica, tossica, distrutta. Tramite un cinema nuovo, esplosivo, ricostruttivo, in cui i volti umani sembrano quadri di Rodchenko e la natura piomba nel più pacato dei malesseri.

Nicola Settis