81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica_28 Agosto – 7 Settembre 2024_Presentazione
La prima notizia è che, dopo quattro anni, il sistema di prenotazione dei posti in sala funziona! Con ancora qualche criticità, con una distribuzione totalmente casuale (e quindi totalmente a fortuna) dei numeri per le file online, con una divisione in fasce orarie fra proiezioni stampa e proiezioni per tutti che ha costretto a doppi turni di prenotazione in orari diversi delle giornate, con tempi di attesa che si sono potuti prolungare per diverse decine di minuti mentre qualche proiezione per tutti gli accrediti in sale più piccole, inevitabilmente, finiva e risultava non più disponibile. Ma anche, una volta che si riesce ad accedere, con un’interfaccia finalmente snella e coerente, che senza più sovraccarichi di sistema e crash vari permette in pochissimi minuti di prenotare (quasi) tutto ciò che si vuole nelle varie giornate, confidando che, fra biglietti che rispunteranno all’ultimo minuto e qualche rush line, in qualche modo sarà possibile riempire anche quei (pochi) buchi rimasti nel programma. Poi, che il dover plasmare una timetable granitica e con scarse o nulle possibilità di cambiare quasi due settimane prima dell’inizio della Mostra, eliminando quel brivido dell’entrare a (molti più) film sconosciuti a caso fino magari a scoprire un autore e riducendo al minimo la possibilità di ascoltare consigli recuperando in replica qualcosa visto precedentemente da altri di cui ci si fida, sia per molti versi una negazione della vita (comunitaria, dialettica) festivaliera, una limitazione che – a Venezia, dove non ci sono mai stati reali problemi per l’accesso in sala, discorso differente per Cannes – può far rimpiangere i tempi pre-covid, è un discorso differente, che non ha senso mettere al centro. Semmai, al centro di questa 81ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica che proprio oggi e nonostante un caldo umido difficilmente sostenibile, con Beetlejuice Beetlejuice ritorno di Tim Burton al suo Spiritello porcello 36 anni dopo la sua prima sortita sullo schermo a dare ufficialmente il calcio di inizio, apre i suoi battenti, ha invece senso mettere un programma come oramai di consueto decisamente troppo a trazione USA-Francia-Italia (anche quest’anno ben cinque i film italiani nella vetrina principale: Iddu di Grassadonia/Piazza, Diva futura di Giulia Louise Steigerwalt, Campo di battaglia di Gianni Amelio, Vermiglio di Maura Delpero e Queer di Luca Guadagnino, più la co-produzione in Maria ennesimo biopic del cileno Pablo Larraín ora alle prese con Maria Callas), eppure questa volta pronto a squarci inaspettati del suo sguardo verso altri immaginari ed altri mondi. Tanto con l’apertura delle porte principali del concorso, a fianco dell’attesissimo ritorno (in 70mm) del logorio del potere secondo Brady Corbet con The Brutalist, de La stanza accanto di Almodóvar e del secondo Joker di Todd Phillips, alla Singapore di Yeo Siew Hua, alla Georgia di Dea K’ulumbegashvili e alla Cina documentaria del terzo e ultimo Youth di Wang Bing, quanto con un fuori concorso probabilmente mai così sontuoso, che alla doppietta di maestri giapponesi Kiyoshi Kurosawa (Cloud) e Takeshi Kitano (Broken Rage) affianca il ritorno a Venezia di Lav Diaz con Phantosmia e il nuovo Why war? di Amos Gitai, per poi scartare verso una sezione Orizzonti che si estende dalla Tunisia a Singapore, dal Nepal alla Turchia, dalla Romania al Sudafrica. Da Israele alla Palestina.
Proprio come confermano l’assenza di ogni pregiudizio di sguardo le opere prime selezionate alla Settimana Internazionale della Critica, per il quarto anno affidata al coordinamento di Beatrice Fiorentino e che questa volta parrebbe più che mai incentrata su differenti (e magari ambigue quando non proprio “sbagliate”, e proprio per questo così stratificate, dialettiche e interessanti) forme di ribellione al sistema, e parallelamente Giornate degli Autori, sezione autonoma guidata ancora da Gaia Furrer che paradossalmente incarna molto più della selezione ufficiale degli ultimi anni, molto più vicina ai criteri di un ‘normale’ Festival, quello che dovrebbe essere lo spirito statutario e la capacità di allargare gli orizzonti di una Mostra d’Arte organizzata nell’ambito dei lavori della Biennale. Con una selezione che, questa volta, partirà dal Giappone del Super Happy Forever di Kohei Igarashi per andare fino alla Repubblica Dominicana del Johanné Gómez Terrero di Sugar Island, per poi virare verso il Brasile di Marianna Brennand (Manas), l’Iran di Shahab Fotouhi (Boomerang), l’animazione dei fratelli Qway (Sanatorium Under the Sign of the Hourglass), e poi tornare in Italia con Taxi Monamour nuova sortita di Ciro De Caro con ancora a fianco l’inseparabile Rosa Palasciano, o con (fuori competizione) Coppia aperta quasi spalancata con cui Federica Di Giacomo, forte della collaborazione di Chiara Francini e del suo costante (ri)portare in tournée l’omonima pièce di Franca Rame co-firmata da Dario Fo, esplora il poliamore, la gelosia e il tradimento, ma anche (o forse soprattutto) la meta-messa in scena di finzione e realtà. Sfaccettature, ognuna con la sua ben precisa identità, di un programma magari dal concorso non esattamente irresistibile ma che sulla carta, navigando fra le sezioni, parrebbe più interessante rispetto a quelli degli scorsi anni, finalmente aperto a ogni formato, dal cortometraggio (fra i quali a stuzzicare particolarmente l’interesse sono FII – Lo stupore del mondo di Alessandro Rak, René va alla guerra co-firmato da Luca Ferri, Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa, il Capitolo II di Se posso permettermi di Marco Bellocchio, e ancora Beauty is not a sin di Nicholas Winding Refn e Allégorie citadine con cui Alice Rohrwacher torna a collaborare con JR per quello che si preannuncia un sostanziale controcampo di Omelia contadina) al medio (El affaire Miu Miu di Laura Citarella), fino alle otto o anche più ore delle serie d’autore (Rodrigo Sorogoyen, Alfonso Cuaron, Edgar Wright su Mussolini, ma pure Thomas Vinterberg) che si alterneranno sugli schermi del Lido. Passando per film dalle durate medie ormai stabilmente oltre le due ore e sempre più spesso verso le tre, in una tendenza generale della quale, fra l’avvento del digitale che ormai da diversi anni ha radicalmente abbassato i costi delle riprese e probabilmente qualche influenza di ritorno da parte dei linguaggi seriali, non si può fare altro che continuare a prendere atto, sperando che riescano a reggere alle loro durate senza sentori di brodo allungato o di divagazioni evitabili. Semmai, a mancare di identità – ma anche questo è un difetto ormai atavico, che da troppi anni si ripresenta sempre uguale tanto a Venezia quanto a Cannes che è stata la prima a eliminare una retrospettiva strutturata – è il calderone tanto seducente quanto informe dei Classici restaurati, che da una parte assicura capolavori a profusione (quest’anno fra gli altri Giochi proibiti, Storia segreta del dopoguerra: dopo la guerra di Tokyo, La notte, Ecce Bombo, Il grande caldo…), ma dall’altra non fa nulla per creare un percorso coerente, per metterli in comunicazione fra loro, per approfondire al di là di un mero volo d’angelo la storia del cinema. Un compito che dovrebbe essere centrale all’interno della Mostra, e che invece sembra essersi fermato alla gloriosa e per molti versi utopistica era di Marco Müller, probabilmente irraggiungibile e irreplicabile nella qualità e nella varietà della proposta, anche se basterebbe la volontà di dare qualche colpo alla barra per riprenderne almeno in parte alcune delle rotte. Anche perché, con i suoi pregi e con i suoi difetti, e pur con una leggera modifica alla grafica dei badge di accredito dopo circa vent’anni di riquadri sempre identici, Venezia è sempre Venezia. Quelle due settimane in cui la kermesse cinematografica più antica del mondo accoglie le sue consuete frotte di accreditati sull’isolotto del Lido per nutrirli di storie e di immagini, di sguardi vicini e di sguardi lontani, di istanze poetiche e di momenti di pura potenza espressiva. Di emozioni, di lacrime, di applausi scroscianti, di sogni. Di una magia che si rinnova in ogni lama di luce nel buio, e in ogni schermo che prende vita. Non resta che aprire gli occhi e guardarlo, ancora e ancora, fino a scoprirsi migliori.
Marco Romagna