800 TIMES LONELY: ONE DAY WITH GERMAN FILMMAKER EDGAR REITZ (2019), di Anna Hepp

Edgar Reitz è una figura centrale per l’arte degli ultimi quarant’anni, autore di Heimat con cui è entrato nei cuori e nelle menti di tutti quelli che amano il cinema. Era impossibile non vedere allora, nella sezione Venezia Classici della 76 Mostra, questo 800 times lonely: one day with German filmmaker Edgar Reitz, documentario-intervista dedicato al regista tedesco oggi ottantaseienne. Anna Hepp, la giovane regista, incontra Reitz in una delle più famose sale cinematografiche della Germania: il Lichtburg di Essen. Il focus principale del film è il dialogo continuo tra queste due persone appartenenti a due generazioni diverse. La Hepp, direttamente in campo e di fianco a Reitz, dialoga con il grande regista di cinema e di vita, i due si confrontano sulle difficoltà del fare cinema, ieri e oggi, e scoprono pezzi delle loro esistenze.
Per dire qualcosa di interessante sul film è necessario capire chi è Edgar Reitz, una delle personalità più importanti del cinema tedesco dal dopoguerra ad oggi. Reitz nasce nell’Hunsrück, in Renania, nel novembre del 1932, e cresce nella Germania di Hitler. Terra d’origine che tornerà in Heimat, ovviamente. Dopo gli studi superiori si trasferisce a Monaco, città che incarna appieno l’ideale artistico che anima il giovane futuro regista. La capitale bavarese sarà infatti il centro della vita culturale del Paese, e qui Reitz inizierà a dedicarsi al cinema. E Monaco sarà ovviamente la città del suo Secondo Heimat (Die zweite Heimat). Un inciso sulla parola Heimat è importante, vocabolo tedesco che non ha un vero corrispettivo nella lingua italiana. Viene spesso tradotto con “Casa”, “Piccola patria”, o “Luogo natio” e indica il territorio in cui ci si sente a casa propria perché vi si è nati, vi si è trascorsa l’infanzia, o vi si parla la lingua degli affetti. Ma su Die zweite Heimat forse punto più importante di questo film nel suo significato ben diverso da Heimat 2, l’improprio titolo italiano, torneremo in seguito.
Nel 1962 Reitz, insieme ad altri giovani cineasti, promosse il cosiddetto Manifesto di Oberhausen, atto di ribellione con cui questi giovani registi esigevano un cinema nuovo: «Il vecchio cinema è morto. Noi crediamo nel nuovo cinema». Invece di puntare all’intrattenimento, volevano che i film fossero un nutrimento per il pensiero. A loro modo di vedere, i registi dovevano anche diventare finanziariamente indipendenti, dichiarando in questo modo la morte del cinema dei padri. Negli anni ’60 con Alexander Kluge, grande amico e collaboratore, fonda una scuola di cinema, organizza molti eventi, e nel 1968 riesce a far introdurre nella scuola il cinema come materia di insegnamento, impresa quanto mai difficile per la burocrazia tedesca di allora. Si batte continuamente per un “cinema degli autori”, aperto alle esperienze autobiografiche dei registi e alle esperienze sociali. In anni in cui la sua opera fatica a trovare successo, ma appaiono invece i primi film di Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder, Margarethe von Trotta, ovviamente Kluge, Hans-Jürgen Syberberg e Wim Wenders. Giovani registi che partirono tutti con piccoli film, e che rimisero il cinema tedesco al centro del discorso.

Nel corso di 800 times lonely: one day with German filmmaker Edgar Reitz scopriamo un regista metodico, disciplinato, che si alzava alle 8 di mattina per scrivere i suoi film. Un tedesco per nulla naif, artista che esigeva sostanzialmente orari d’ufficio. I suoi film hanno infatti spesso richiesto tempi lunghissimi, tre anni per scrivere Heimat, addirittura sette fra scrittura e realizzazione per il secondo, e addirittura una decina con undici versioni della sceneggiatura per il terzo capitolo.
Il film cerca di comprendere cosa vuol dire fare cinema, cosa motiva un regista a rimanere attaccato ai suoi ideali artistici e cinematografici anche in tempi di fallimento. Scopriamo un regista ostinato che ha vissuto profonde disillusioni, negli anni ’60 quando i suoi amici e colleghi spiccavano il volo con i primi lungometraggi e lui è rimasto un autore di nicchia che ha sempre visto poco pubblico. Verso la fine degli anni ’70 visse anche un vero e proprio sconforto dopo il fallimento di Il sarto di Ulm, film in costume in cui credeva moltissimo. Reitz ebbe crisi esistenziale e la sensazione di aver fallito come artista, ma tutto ciò fu la sua fortuna, poiché lo riportò a ricercare le sue radici, a ritornare alle proprie origini, nel luogo della sua infanzia. Quell’Hunsruck dove sono conservate le storie che porteranno il suo cinema ai massimi livelli con Heimat, che gira quando ha già cinquant’anni e viene proiettato proprio qui a Venezia nel 1984, quando di anni ne ha già 52.
Nella lunga intervista Reitz tocca argomenti che meriterebbero discussioni approfondite, sostiene che attraverso un film noi «cancelliamo parte della nostra vita», che il film diventa tutto e arriva ad essere forse persino più importante delle persone. Il regista tedesco sostiene che se una storia proviene da un’esperienza personale o autobiografica, una volta messa su carta e poi su pellicola, questa esperienza personale si cancella. Rimane solo la storia, rimane solo il film. È un argomento che Reitz sostiene con una sicurezza che solo i tedeschi sanno avere, come conferma ci ricorda che una donna che era alla base di un personaggio del suo Heimat dopo aver visto il film lo ha cercato e lui non si ricordava chi fosse. Per lui esisteva solo il personaggio.

La foresta tedesca è centrale nella sua vita, è la sua terra ma è anche metaforica perché è nera, oscura, piena di misteri e di zone d’ombra. Nel film Reitz ci parla di Friedrich e del romanticismo, tocca tutti i grandi della cultura tedesca, da Musil da cui si era ispirato per un primo film fino a Goethe che sarà centrale per il suo capolavoro. Infatti Die zweite Heimat parte proprio del grande scrittore tedesco e dalle sue Affinità elettive: Reitz riprendendo Goethe ci dice che si nasce due volte, la prima dal ventre della madre (Heimat, la prima casa, la prima vita), e la seconda dalla testa, dalle esperienze che si fanno nella vita, Die zweite Heimat, la seconda vita, la seconda casa.
Compaiono il suo Hermann e la sua Clarissa, ma «niente è natura, tutto è proiezione e immaginazione», ci dice Retiz rivedendo un episodio di questo gigantesco film, proiettato nel cinema dove lui e la regista sono seduti. Anche se ormai austero uomo di ottantasei anni è ancora pieno di quelle emozioni in cui palpita la vita stessa, di quei sentimenti che vanno oltre le strettoie della ragione. Vediamo un uomo che sorride poco perché “sorridere è una costrizione” del mondo di oggi. Non si commuove mai, neanche di fronte a una canzone straziante cantata dalla moglie, una canzone in cui si scopre la felicità solo quando si capisce di essere tristi.
800 times lonely: one day with German filmmaker Edgar Reitz è una dichiarazione d’amore per il cinema, non solo quello di Reitz. Tanto che, verso la fine del film, il regista tedesco sottolinea come il cinema nient’altro sia che un tentativo di preservare i ricordi per sempre, «a conservare il tempo» con una naturalezza meravigliosa. Portandoci inevitabilmente a conservare il suo cinema, la sua Heimat che ci farà sempre amare questo nostro piccolo grande mondo.

Claudio Casazza