78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica_01-11 Settembre 2021_Presentazione
Quasi quasi dispiace, pensando a chi ogni anno preferisce giungere a Venezia in aereo. Certo, chi vola può godere il privilegio dell’abbacinante bellezza della città dall’alto, dei canali, delle palafitte, dei motoscafi come puntini che increspano il pelo dell’acqua. Ma inevitabilmente si perde il momento di più pura emozione. Perché è solo arrivando via terra, lungo quella lingua di quattro chilometri sul mare che è Ponte della Libertà unica strada per gomme e rotaie che la collega con il resto del mondo, che si riesce ogni volta ad assaporare e vivere lentamente il progressivo dischiudersi della perla lagunare, lo sbocciare di un fiore che diventa sempre più vicino e sempre più bello. Con quel rito ormai immancabile che si ripete sempre identico negli anni, «Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare» dalle casse dall’autoradio come unica colonna sonora possibile per quei minuti di inesauribile meraviglia, di irresistibile fascino, di puro incanto, dal «fumo, o la rabbia di Porto Marghera» fino al porticciolo di Tronchetto, e poi sul Ferry in direzione Lido. Consci che anche questa volta, per fortuna, nonostante i due anni di pandemia e lo spostamento a luglio dell’asso pigliatutto Cannes, il Doge non «ha cambiato di casa», e che la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica è sempre lì, a ribadire ancora una volta con forza la centralità del grande schermo e della visione collettiva, l’irrinunciabilità del cinema (anche) come evento, la necessità di allargare il più possibile lo sguardo. Con un’edizione, la numero settantotto della più antica kermesse cinematografica mondiale, che un po’ per il perpetrarsi non ancora del tutto esaurito delle contingenze epidemiche, e un po’ perché nelle ristrettezze dello scorso anno Venezia si è finalmente ricordata della sua originaria vocazione di Mostra in luogo del mero Festival che stava da troppi anni cercando di diventare, parrebbe proseguire sul sentiero di chi sa osare e prendersi dei rischi. Non solo nelle tradizionali espansioni di Orizzonti, che quest’anno si estenderanno dall’Egitto al Kosovo, dalla Cambogia al Messico, dalla Slovacchia all’Ucraina, dalla Thailandia al Giappone e dalla Bolivia alla Francia, e nemmeno solo per il lavoro sempre più straordinario delle sezioni indipendenti, con la crescita evidente già dalla carta sia delle Giornate degli Autori nella loro seconda edizione a guida Gaia Furrer, sia della prima Settimana Internazionale della Critica affidata a Beatrice Fiorentino, coadiuvata fra gli altri dall’ingresso nel comitato di selezione del direttore editoriale di Quinlan.it Enrico Azzano dopo il passaggio di Giona Nazzaro alla direzione di Locarno. Il ritrovato coraggio della Mostra sta ancora più al centro, trasversale fra le sezioni, dai primi lungometraggi del concorso fino agli ultimi visori per la realtà virtuale, per una manifestazione che sappia essere meno statunitense e meno francese scegliendo di riaprire alla ricerca, alla sorpresa, a ciò che per troppo tempo è rimasto al di fuori dei radar, anche a costo di lasciare un po’ più in disparte quello che, nel giro di poco tempo, arriverà comunque sugli schermi.
Probabilmente è per questo che, nell’assenza del West Side Story di Spielberg, l’Halloween Kills di David Gordon Green, il The Last Duel di Ridley Scott e soprattutto l’atteso Dune di Denis Villeneuve fra le maggiori attese del mainstream americano troveranno quest’anno spazio solo nel fuori concorso, mentre la competizione principale lascerà spazio al già stracult del filippino iper-underground Erik Matti e al nuovo lavoro dopo lo splendido Atlantis dell’ucraino Valentyn Vasjanovyč, al potere del cane di Jane Campion e alle madri parallele di Pedro Almodóvar, al controcampo sul dirigente d’azienda che chiuderà la trilogia proletaria di Brizé e al potere di Lady D secondo Larraín. Lasciando che a rappresentare gli States nella maggiore vetrina di Venezia78 ci sia invece la pura autorialità di Paul Schrader, con l’esordio dietro alla macchina da presa di Maggie Gyllenhaal e con l’opera terza della naturalizzata Ana Lily Amirpour in mezzo a tanta Europa e a qualche pennellata di Sudamerica. Senza poter chiudere gli occhi sulla ripresa, o almeno così parrebbe, dell’Italia cinematografica, un capitolo a parte in quest’estate del 2021 con l’ottima figura tanto a Cannes (non solo la proiezione speciale di Bellocchio, ma anche Carpignano, Rigo de Righi/Zoppis, Laura Samani…) quanto nella Locarno dei vari Angius, Rak, Papou e Misischia. Un’Italia che premia Benigni in attesa di presentarsi a Venezia con ben cinque film in concorso – Sorrentino, Frammartino, Mainetti, i fratelli D’Innocenzo e Martone –, e almeno un’altra dozzina di titoli interessanti, fra l’Ariaferma di Di Costanzo, Il palazzo di Federica Di Giacomo, l’intervista di Luca Rea a Quentin Tarantino, il nuovo Cassigoli/Kauffman e Giulia di Ciro De Caro, sparsi per le altre sezioni ufficiali e laterali. Una rappresentanza nutrita, importante, di prestigio, che nel rinnovarsi dello stesso sistema di prenotazioni su Boxol già inaugurato l’anno scorso – anche se non si capisce per quale motivo ci si debba ostinare a sbloccare i biglietti 72 o 74 ore prima dell’inizio del singolo evento anziché tutte le proiezioni insieme a inizio o a fine giornata, che eviterebbero di costringere a code virtuali sugli smartphone in sala (anche) durante i film di tre giorni prima – scandirà più che mai nella lingua di casa lo scorrere dei consueti dodici giorni di magia.
Semmai a destare qualche preoccupazione sono le difficoltà di prenotazione per (tanti, troppi) film che vanno esauriti a volte in appena un paio di minuti, portando a chiedersi se quest’anno non ci siano troppi accreditati per la capienza di sale ancora limitate al 50%, e a far storcere un po’ il naso in questi primi giorni di prenotazioni pre-Mostra c’è la sproporzione del tutto ingiustificata per la quale nelle proiezioni press – e lo diciamo da “rossi”, con al collo quel Daily massimo livello per la stampa veneziana guadagnato e meritato proprio in tanti anni di lavoro con accrediti di colore minore – la stragrande maggioranza delle sale principali è riservata solo ai badge di massima priorità, mentre tutto il resto della stampa che è ugualmente a Venezia per lavorare e che ugualmente paga la stessa cifra per farlo dovrà correre e sgomitare per sperare di accedere al residuo 20% delle poltrone, fra qualche film inevitabilmente perso, continui cambi di programma e salti mortali fra repliche non sempre comode. Per un sacrosanto diritto, quello degli accreditati quotidianisti di vedere i film per tempo, che sembra quest’anno virare verso un privilegio eccessivo di cui non c’è mai stato alcun bisogno, quando per garantire a noi “rossi” l’accesso senza ledere gli altrettanto sacrosanti diritti dei colleghi (e, a cascata, degli ancora più penalizzati culturali che rischiano seppure accreditati alla Mostra di non riuscire ad accedere nemmeno alle repliche) sarebbe stato più che sufficiente concedere qualche ora di vantaggio sui “blu”, sui “gialli” e sui “verdi”, per poi lasciare a disposizione di chiunque abbia un pass i posti rimasti liberi. Si spera che la Mostra e Boxol riescano a risolvere o per lo meno a tamponare la situazione, ricalibrando la percentuale di posti riservati ai Daily sulle reali proporzioni fra una tipologia di accredito e l’altra, e quando possibile organizzando slot di proiezioni aggiuntive e realmente accessibili, che consentano di lavorare a chi vuole farlo seriamente con il suo Periodical o Media Press e non taglino del tutto fuori i giovani appassionati. Sarebbe l’unico modo per rimediare a un’evidente stortura, che proprio nell’anno in cui la prenotazioni hanno costretto Cannes a rinunciare a tanta parte del suo fondativo classismo rischia di introdurlo in quella Mostra che di fatto non lo ha mai esercitato. Sarebbe una questione di rispetto e anche più prosaicamente di buon senso, con cui rispondere al protocollo claudicante della manifestazione francese confermando la possibilità di svolgere in piena sicurezza un evento di queste dimensioni con più persone rispetto allo scorso anno ma il distanziamento sempre garantito, e senza che i troppi settori riservati ai “rossi” rischino di rimanere mezzi vuoti mentre gli altri accreditati rimangono comunque fuori. Proprio come sono semplicemente buon senso, e un’iniziativa stavolta del tutto gradita, i biglietti per le proiezioni e il Green Pass sanitario integrati direttamente sul badge di accredito, senza dover necessariamente dipendere dalle batterie degli smartphone per esibire in continuazione i differenti documenti elettronici.
Il resto lo farà il cinema, che come sempre sarà un po’ da andare a cercare fra le pieghe del programma navigando fra le ramificazioni delle sezioni, ma che è sin d’ora ampiamente annunciato come presente e ancora capace di stupire, di emozionare, di far riflettere, di sussurrare e di gridare a squarciagola. Con le sue ossessioni e con le sue intuizioni, con i suoi diversi linguaggi e con le sue luci a tagliare il buio delle sale. Intervallato, s’intende, dai soliti spritz – rigorosamente con il Select, non c’è tempo nei serrati ritmi veneziani per la dolcezza dell’Aperol – e dagli immancabili panini Briez Taylor del Pecador. Perché i film, si sa, sono il centro e devono esserlo, ma al contempo è altrettanto giusto che rimangano solo una parte degli eventi che li ospitano, fatti anche di una ben precisa e atmosfera e di una determinata geografia, di vicendevoli incontri e di rapporti umani, di sfide dialettiche e di reciproche illuminazioni, di inspiegabili affezioni e di radicate abitudini. E pure di endemici difetti sempre identici anno dopo anno, come le connessioni un po’ pigre dell’isolotto, come i caffè e l’acqua rigorosamente a pagamento in bar esterni a più di tre piani dalla sala stampa, come i momenti di inspiegabile coda ai varchi dell’area Mostra, come le programmazioni che costringono ad assonnati ingressi in sala praticamente all’alba, come il bianco abbacinante che acceca violentemente chiunque esca dal Palazzo del Casinò. Ma sono anche questi istanti a cui in qualche modo affezionarsi, piccoli riti come la prenotazione che finisce quasi immancabilmente per far scegliere sempre lo stesso posto in ogni sala, come il lato preferito che ogni accreditato ha per l’ingresso in Darsena, come l’eterna diatriba fra chi nelle doppie proiezioni incrociate preferisce la conchiglia del vecchio Palagalileo o l’eleganza affusolata della Sala Grande. Come l’essere catapultati in una sorta di mondo a parte, una bolla di stimoli e cultura in cui per quasi due settimane tutto il resto sembra non esistere, o per lo meno sembra rimanere distante, confinato su quella terraferma rimasta oltre il ponte, mentre in Laguna c’è spazio solo per la magia, per il senso di meraviglia, per la passione totalizzante. «La gondola è solo un bel giro di giostra», canta Guccini ogni volta che si arriva, lungo quei quattro chilometri sospesi sul mare. Niente di più vero. Un giro sempre talmente bello che è fondamentale possa non fermarsi mai. E no, non esisterà mai uno streaming che possa neanche lontanamente trasmettere quello che vuole dire Venezia. Già è impossibile spiegarlo a parole.
Marco Romagna