’77 NO COMMERCIAL USE (2017), di Luis Fulvio
“[…] Noi vogliamo attirare l’attenzione sui gravi avvenimenti che si svolgono attualmente in Italia e più particolarmente sulla repressione che si sta abbattendo sui militanti operai e sui dissidenti intellettuali in lotta contro il compromesso storico. In queste condizioni che vuol dire oggi, in Italia “compromesso storico”? Il “socialismo dal volto umano” ha, negli ultimi mesi, svelato il suo vero aspetto: da un lato sviluppo di un sistema di controllo repressivo su una classe operaia e un proletariato giovanile che rifiutano di pagare il prezzo della crisi, dall’altro, progetto di spartizione dello Stato con la DC (banche ed esercito alla DC; polizia, controllo sociale e territoriale al PCI) per mezzo di un reale partito “unico”. E’ contro questo stato di fatto che si sono ribellati in questi ultimi mesi i giovani proletari e i dissidenti intellettuali. Come si è arrivati a questa situazione? Cosa è successo esattamente? Dal mese di febbraio l’Italia è scossa dalla rivolta di giovani proletari, dei disoccupati e degli studenti, dei dimenticati dal compromesso storico e dal gioco istituzionale. Alla politica dell’austerità e dei sacrifici essi hanno risposto con l’occupazione delle Università, le manifestazioni di massa, la lotta contro il lavoro nero, gli scioperi selvaggi, il sabotaggio e l’assenteismo nelle fabbriche, usando tutta la feroce ironia e la creatività di quelli che, esclusi dal potere, non hanno più niente da perdere. […] La risposta della polizia della DC e del PCI è stata senza ombra di ambiguità: divieto di ogni manifestazione a Roma, stato di assedio permanente a Bologna con autoblindo per le strade, colpi d’arma da fuoco sulla folla. E’ contro questa provocazione permanente che il movimento ha dovuto difendersi. […] I sottoscritti esigono la liberazione immediata di tutti i militanti arrestati, la fine della persecuzione e della campagna di diffamazione contro il movimento e la sua attività culturale, proclamando la loro solidarietà con tutti i dissidenti attualmente sotto inchiesta“.
tratto da Appello degli intellettuali francesi per il convegno di Bologna sulla repressione in Italia – J.P. Sartre, M. Foucault, F. Guattari, G. Deleuze, R. Barthes, F. Vahl, P. Sollers, D. Roche, P. Gavi, M.A. Macciocchi, C. Guillerme e altri – 5 luglio 1977
“È il ’77, finalmente il cielo (rosso) è caduto sulla terra. (A) Soffiare sul fuoco, attraverso la zizzania, la gioia (armata), rivolta (di classe) e cospirazione, senza tregua, è uno strano movimento di strani studenti, congiura dei pazzi senza famiglia, senza galere. La prateria è in fiamme, la rivoluzione è finita, abbiamo vinto”. Qualcuno si è mai chiesto se nella storia, soprattutto in quella contemporanea, ci sia qualcosa da vincere o da perdere? Probabilmente questo interrogativo scomodo spetta solo a chi ha vissuto le fratture del secolo breve, o forse a chi addirittura le ha create, ribaltando i rapporti di predicazione legati a una società tormentata e tormentosa, ma viva e pulsante come da allora probabilmente mai più. Se il Sessantotto ha mostrato in qualche modo la nudità delle istituzioni e del potere, la credibilità nulla dell’ordine costituito come del costume riconosciuto, la possibilità sia reale che utopica di rivoluzione quantomeno culturale, in Italia quell’onda lunga pare giungere il decennio successivo; nove anni esattamente, quando la lettura geopolitica del globo ha ormai intrapreso altre coordinate e sulla scena mondiale appaiono nuove forme di controcultura giovanile, innescando linguaggi e detonando un respiro fortemente anarchico. Il Settantasette riguardo tutto ciò è un punto di non ritorno (quasi sintesi tardiva e allo stesso tempo pregressa di ’68 ed ’89), catalizzatore come condensatore di movimenti e affermazioni, con la sua striscia di sangue a inquinarne la ridiscussione dialettica ancora una volta rimasta abbozzata e mai realmente sviluppata. L’espressione umana è il dissenso, la spinta insurrezionale è la realtà, la voracità della storia è il rivoltarsi, giorno per giorno. Sembrava un punto di partenza, l’ennesimo, il momento in cui la rivoluzione diventava permanente, dove la rottura col passato mostrava la sua ferita controversa ma vitale, una radicalità che a quarant’anni di distanza lascia interrogativi enormi e prospettive assai distorte. Nel Settantasette per l’ultima volta le culture politiche e gli orizzonti rivoluzionari hanno un peso decisivo sul quotidiano, ma proprio nella loro massima possibilità emerge la piena consapevolezza delle proprie impossibilità, di un’irreversibile crisi che come crepa spacca i movimenti e le visioni, di un sentore tellurico senza alcuna direzione. Tali premesse sono fondamentali perché se da una parte (per molti storici soprattutto) il ’77 è stato il canto del cigno di una rivoluzione possibile in occidente, dall’altra le vibrazioni frastagliate e scomposte di quell’anno vanno scandagliate e ripercorse, non cercandone tracce ma solo respiri. Ed è proprio questo che Luis Fulvio (così lo chiameremo1) ha cercato di fare, scardinandone proprio i confini immaginari.
Herzog, il vulcano e il disastro apparente. Grifi e le (sue) voci fuori dal coro. Bowie tappeto sonoro di eroi forse inconsapevoli. Titolo di testa. Il ’77 è stato anche questo, o probabilmente solo premessa e invito, messaggi quanto segni apparentemente incomprensibili e distanti, ma terribilmente vicini. Da gennaio a dicembre, ’77 No commercial use è un flusso, è un vortice, è un tuffo (nel baratro). Si parte dalle carceri, le evasioni e le morti, si passa rapidamente in strada dagli indiani metropolitani, dove a reprimere la lotta arrivano i corpi speciali. C’è Lockheed e c’è il compromesso, ci sono giovani che rifiutano tutto questo nel tentativo di smascherare le ultime roccaforti del potere, ci sono donne che partendo dalla piccola e grande rivoluzione dell’aborto cercavano diritti per la libertà del proprio corpo, la libertà di amare. Ed ecco così la rottura tra il Partito e le avanguardie, tra i sindacati e il mondo del lavoro, tra la scuola e l’universo giovanile. I danni della riforma Malfatti sull’istruzione, le incursioni nere del FUAN in facoltà da una parte e gli autonomi dei Volsci (con molti altri) dall’altra. Si procede di strappi e decomposizioni, dualismi e dissoluzioni; le istituzioni non comprendono, o meglio non sentono il vuoto di una frattura che allora apparse come incolmabile e che ora viene solo accennata in una scheda facoltativa del sussidiario alle superiori. Il dibattito di Lama alla Sapienza e quello di Berlinguer al comizio, le cose che sfuggono di mano a figurine che, per il movimento, ormai significano solamente slogan da esibire in manifestazione. Lo sguardo poi si amplia all’estero: le ribellioni londinesi con i Sex Pistols e il dirottamento aereo della United Red Army, le morti sospette a Stammheim di Baader, Raspe ed Ensslin e l’enorme black-out di New York, fino agli spettri della nuova epopea disco, e alla morte di Elvis che chiude definitivamente un’era. Il tempo si frammenta, le incursioni aumentano. Dalla tragica vicenda di Luciano Re Cecconi, centrocampista della Lazio ucciso durante la sua (falsa) rapina, ai comizi di Benigni e Monni contro il nucleare, dalla fuga sospetta di Kappler al processo nei confronti delle BR, dalla galleria di figurine celeberrime della cultura dei tempi che amplificano le espressioni del momento (Bene, Fo, Troisi) alle interviste ai protagonisti meno conosciuti di questo fronte infinito (Langer, Miliucci e la Vianale). Si manifesta e si occupa permanentemente, da febbraio a fine anno, per Panzieri, Paolo e Daddo, a Roma, a Milano, a Torino come a Bologna e a Bari. Cambiano anche i riferimenti culturali: i nuovi profeti sono gli intellettuali francesi che nel luglio si schierano pubblicamente a favore del convegno emiliano sulla repressione, cambia la musica per cui si va ai concerti (irrompe il punk che vuole e cerca di fare tabula rasa delle regole di ciò che si suona ma soprattuto del costume di coloro che ascoltano), cambia la prospettiva prima politica e poi sociale di un quotidiano (Basaglia che non si ferma alla chiusura dei manicomi, ma guarda a una società che si batte solo per chi già ha e non per coloro che non posseggono e così vogliono ottenere) che vuole rifuggire dal (non) valore borghese per cercare traiettorie altre.
’77 No commercial use sono le speranze e le ossessioni, quelle di Luis Fulvio, che nel ’77 ci è nato e sul ’77 si è sempre interrogato. Perché di ’77 si può anche morire, da entrambi le parti – poliziotti e manifestanti, giornalisti e studenti, uomini delle istituzioni e cittadini comuni – lungo il fronte di una trincea apparente, ma mai dichiarata, tra il vecchio e il nuovo, tra il passato e il futuro, tra la reazione e la rivoluzione (Lorusso, Passamonti, Petrone, Lo Muscio e Rossi, solo per citarne alcuni). Apparenze appunto, appunti di attivismo e condivisione, le parole di Giorgiana Masi e Patrizia Vicinelli, i deliri di Vallanzasca (impegnato in una spettacolare e ormai impossibile conferenza stampa subito dopo l’arresto) e Concutelli, le fotografie di Tano D’Amico, le traiettorie di Bifo Berardi, gli artwork di Andrea Pazienza, le canzoni di Giancarlo Manfredi, l’ironia di Gino&Michele e le teorie di Toni Negri. Mentre pure gli autonomi bianconeri sulla strada verso lo stadio scorrazzano invocando le P38, perché nulla in quella società sfuggiva al senso della politica e del politicizzabile. Fino a quando le immagini non escono dalla cronologia e si fanno puro cinema, condensato e frammentato, a interrompere il (meta)flusso e ad aprire ancora infinite finestre e possibilità. La profezia di Rossellini poco prima del suo lancinante funerale, quella rivoluzione culturale assolutamente necessaria (proprio perché all’ultima chiamata possibile) dove al cinema spettava una funzione fondamentale, proprio nel momento in cui “le società muoiono perché si suicidano”; la (auto)difesa di Moretti di fronte agli amici compagni che oramai lo vedono colluso con la macchina (sistema cinema), svenduto davanti al capitale e così ingiustificabile. E poi l’incompreso Citti (di backstage) e il notturno (langhiano) Chabrol, l’oscuro desiderante Buñuel e l’alieno ravvicinato Spielberg, il sognatore Bresson e l’irridente Sganzerla, l’autunnale Fassbinder e il distorto Browning, il disturbante Lynch e il satanico Boorman, lo spaventoso Romero e il rayano Wenders. Quella era anche l’epoca del Filmstudio romano, l’utopia di uno spazio libero e provvisorio, ipotetico ma così reale che Sbardella fondò per trovare un altra via possibile del cinema sperimentale e indipendente in Italia. Il ’77 in mostra (per immagini altre, di quella finzione quasi più realista di un reale scomposto in iperboli continue) fino alle visioni pulsanti di Brakhage, all’umanità della Akerman, alla resistenza di Tornes e alla teoria rivoluzionaria di Straub, mentre la storia si frantuma davanti all’addio di Charlot, la scomparsa di Hawks, l’abbandono dei Langlois, il padre del frammento e della raccolta, del ricordo e della ricostruzione. L’anno passa, si attorciglia su se stesso, miete le sue vittime come i suoi sogni. Il ghigno tragicomico di Eduardo e il sacrificio (anche estetico) del linguaggio punk, la voce carnale di Carmelo Bene e quell’invettiva sonora dei Ramones che si prende i titoli di coda, chiude l’immaginario del possibile. A Blob, a Fuori Orario, a tutte le cose (mai) viste e che più che mai andrebbero viste. Ieri, oggi e domani.
Poco dopo arriverà il caso Moro e la dissoluzione, come se il fantasma del decennio precedente riprendesse vita nella reiterazione di una sconfitta, l’ultima la più inevitabile e dunque dolorosa. Il viaggio di Fulvio nel ’77 è una specie di odissea, un mosaico incertissimo che si avvale di giornali e fanzine, grafica e manifesti, fotografie e video da ogni archivio possibile e provvisorio in cui attraversare volti e speranze, atti e corpi, in quello che da una parte si rivela come studio scientifico (quasi marxista) del sistema e dall’altra respira di un autobiografismo diaristico e immaginato, alla ricerca della tracce e radici di chi ha aperto per la prima volta gli occhi in/su quell’anno così anomalo e infinito. A partire dal (sotto)titolo “no commercial use”; nessun uso commerciale, nessun diritto su quelle immagini2. Dunque nessuna regola possibile nel ricostruire un anno, solo calendario ed orologio, frammenti e materialismo, rapporto ribaltato anche nei confronti della serialità come dell’informazione televisiva e mediatica in generale – la frattura della comparsa di Cicciolina e l’altrettanto disinibito avvento delle radio libere, l’estetica titolista dei quotidiani, i servizi catodici in attesa di una dignità del colore, e più in generale la controinformazione (simbolico è lo smantellamento in diretta filodiffusa di Radio Alice o il servizio dedicato a Moroni ed alla sua libreria Calusca). Tutto in quell’anno sembra però inevitabilmente compresso, con una mancanza di prospettiva etica quanto estetica, legato a un situazionismo di fondo che fa tremare le sicurezze dei (non)valori borghesi da una parte, ma nega le possibilità di un destino futuribile a un immaginario collettivo straordinario dall’altra. La nuova consapevolezza di un eterno presente possibile che risarcisse il movimento dal destino passato (i rimpianti critici del Sessantotto) e lo liberasse da quello futuro (i fantasmi consumistici degli anni Ottanta), si scontra necessariamente con la mancanza assoluta di una direzione condivisa, spesso inconciliabile. Se da una parte il ’77 ha generato una nuova ondata spontanea e creativa di identità giovanile (anche originale rispetto alle esperienze del decennio precedente) che si pone come alternativa irriverente, ironica e iconoclasta rispetto al potere, dall’altra la corrente autonoma più massimalista cercava solo il linguaggio della violenza, attaccando frontalmente lo Stato in qualsiasi sua declinazione possibile. Ultimo momento di pulsione del secolo breve o prima epifania della nuova società? Possibilità dialettica di un’alternativa alla realtà o battaglia permanente rispetto a qualsiasi dei valori che essa ha in sé? Ricostruzione o distruzione? Tra tutte le letture possibili (riprese anche per questo scritto), c’è una frase di Crispigni – archivista, storico e studioso dei movimenti sociali – che nel libro 1977 cerca una risposta, la più provvisoria e reale probabilmente. “La centralità del desiderio e del soggetto desiderante scompaginano qualsiasi centralità oggettivamente data. Il desiderio diviene movimento e il movimento si fa performance, evento. Non c’è presa del potere negli orizzonti (e negli interessi) del movimento, c’è il suo dis/velamento. Certamente il ’77 non è solo questo; è anche (e dopo marzo soprattutto) estremismo politico, l’insurrezionalismo dell’Autonomia operaia, il marxismo rivisitato dei gruppi neoparlamentari dell’estrema sinistra, la radicalizzazione della polemica antiriformista contro il Pci. Ma a fianco della politica, e spesso proprio nelle pieghe dell’estremismo politico, si nasconde questa prima grande sperimentazione del suo superamento […]”. Dopo tutto dunque è necessario e doveroso guardare a questo superamento. All’azione ideale che è lo stesso Fulvio a citare, di un mo(n)do nuovo non solo possibile, ma mai così reale, in una particolarissima dialettica dove ciò che sembra terribilmente collettivo ritorna intersecato con il più privato intimismo personale, come se fosse una ricerca dei propri demoni nella memoria altrui, un viaggio di oltre due anni per un anno solo, o un solo anno.
Questo straordinario sguardo sul ’77 è anche un discorso sul metodo dell’archivio, espressione di un linguaggio analitico e militante ma quanto mai rigoroso attraverso il “presente ed assente continuo del cinema”; l’approccio autoriale è estremamente limitato, sono gli atti a parlare, i momenti di un’epopea (im)possibile come (ir)riducibile, gli squarci all’interno di un montaggio volutamente scontroso e scomposto, quelle fratture da cui si dipana ancora oggi un’energia disturbante, un’espansione definitiva del senso più stretto di politicizzazione del reale, ampliandone il linguaggio di sensibilizzazione e dunque di scontro concettuale quanto fisico. Come in una sorta di anti-Blob, o di Blob-FuoriOrario fatto di Cose(mai)viste (con tanto di titoli di coda che scorrono come un serpente televisivo), ’77 No commercial use ridà vita a un anno attraverso un archivio, dona una nuova dignità attraverso una nuova percezione, guarda la Storia attraverso un nuovo occhio. Umori, tensioni, aspettative, contraddizioni, concetti, parole, suoni, immagini, rumori, manifestazioni, proteste, destini, immaginari, materiali, repressione, e forse potremmo andare avanti ancora un intero paragrafo, fatto di contrapposizioni e giustapposizioni, di tessere rappresentanti le facce di un di quei pochissimi anni che rappresentano un’epoca, inaugurandola e chiudendola. Il senso è su quella panchina, sull’impossibilità di completare il Cubo di Rubik entrato in commercio proprio nel ’77, filo estetico e allo stesso tempo teorico dell’opera, un filo sentimentale e malinconico; perché nessun tassello ormai è al suo posto, nessuna tessera dell’album può riuscire a comporre un puzzle così disperso, e dunque nessuna fine può essere scritta. Rimangono le anime che scompaiono, perché scomparse sono quelle domande, quella pulsione verso il ribaltamento di tutto il possibile, di un vento passato che però può ancora raccontarci la storia del mondo. Quello che resta mentre lo stordimento ci abbandona è “un regalo di compleanno ma anche il tentativo di ritrovarsi tra i frammenti di uno specchio che ci è franato addosso spalancando un enorme baratro in cui siamo caduti e precipitiamo abbandonati alla catastrofe”. Quindi nel ’77 chi ha vinto? Chi ha perso? Il fatto che ancora oggi si guardi a quell’anno così strambo, magico e drammatico, forse porta già in seno una risposta. Come avrebbe detto JLG, non possiamo fare la storia di quello che stiamo vivendo. Ma è sempre bello provarci. Per lo meno fino al successivo capodanno: Gabba Gabba Hey!
Erik Negro
1 Quando (Luis) Fulvio Baglivi lavora per Fuori Orario – Rai 3 e per la Cineteca Nazionale utilizza regolarmente il suo cognome, ma per i lavori cinematografici “not for commercial use”, fatti per passione e intima necessità in totale autonomia e senza alcun tipo di ritorno economico, preferisce che la firma sia semplicemente un amichevole Luis Fulvio. Al di là di questa nota “cronachistica”, rispetteremo la sua volontà e il suo nome d’arte.
2 Già mostrato a Italiana/TFFdoc del Torino Film Festival, al Laceno d’Oro e al meneghino Filmmaker Festival 2017, ’77 No commercial use è un film che Fulvio ha fatto per se stesso e per proiettarlo a titolo rigorosamente gratuito ai Festival (o nelle singole sale) che gli offriranno l’occasione per farlo. Non cercherà né troverà mai una distribuzione, non sarà mai fonte di guadagno, così come mai pagherà i diritti per le musiche e gli spezzoni di film utilizzati. In un mondo-cinema sempre più industria e sempre meno arte e autorialità, questa è di per sé una nuova e piccola Rivoluzione, per la quale non possiamo che ringraziare Fulvio e chiunque continui, come noi, a crederci.
P.S. Un ringraziamento speciale a Lucrezia Ercolani e a Tonino De Bernardi per la magnifica lettura. E.N.