È una pancia villosa che fa capolino da una camicia semiaperta, l’immagine più incancellabile e straziante della settantasettesima edizione del Festival di Cannes. Con un’inquadratura necessariamente sgraziata, tendente al piano olandese, a tagliare buona parte del volto. Un’immagine che Jean-Luc Godard ha voluto e scelto che fosse l’ultima a ritrarlo in vita, seduto sul suo letto di Rolle la sera fra il 12 e il 13 settembre 2022, in attesa della mattina in cui ricorrere volontariamente al suicidio assistito. Sarà poi la seconda parte di Scénarios, ovvero Exposé du film annonce du film “Scénario”, con il ritorno a riprese di qualche mese prima, a far capire la profondissima dignità e in qualche modo la necessità della scelta di Godard di mettere fine, all’alba dei novantadue anni, alla propria vita. Un uomo, un cineasta, un intellettuale dall’intelligenza, dalla cultura e dalla visione d’insieme troppo superiori per poter accettare di perdere di vista anche un solo dettaglio apparentemente insignificante, per poter ammettere qualche momento di minore lucidità nella composizione e nell’esposizione dei propri trailer cartacei, per potersi permettere di arrendersi alla senilità della mente. Molto meglio uscire di scena ancora nel pieno delle proprie facoltà, a testa alta, in maniera onorevole, in uno Stato regolamentato come la Svizzera, senza dover ricorrere alla morte violenta come Mario Monicelli, costretto dal cancro e da un Paese bigotto a lanciarsi dalla finestra proprio come pochi anni dopo dovette fare pure Carlo Lizzani. Molto meglio decidere di mostrarsi su quel letto, nell’ultima sera della propria vita, come un ultimo saluto da affidare al montaggio di Fabrice Aragno con il quale, dopo decenni a stimolare più di chiunque altro la sfera intellettuale, tirare una definitiva e inaspettata stoccata emotiva. Fino alle lacrime, fino all’assoluto annichilimento, fino ai più profondi interstizi dell’anima di chi si ritrova a singhiozzare come un bambino sulla poltrona di un cinema.
Del resto tutti noi siamo i film che guardiamo, progressivamente plasmati nell’identità da anni e anni di visioni che entrano nell’immaginario e che si mescolano ai ricordi, diventando a tutti gli effetti parte (e forse senso stesso) della vita. Una tesi teorica commovente che forse potrebbe essere il filo conduttore dell’intera edizione del Festival transalpino, fra la sua aperta enunciazione da parte di Leos Carax in C’est pas moi – probabilmente insieme al doppio Scénarios del dichiaratissimo maestro Jean-Luc Godard l’unico reale capolavoro assoluto di un’annata cannense comunque ben superiore alle più rosee aspettative, magari avara di future pietre miliari ma forte (al netto di poche inevitabili delusioni, da Agathe Riedinger a Nabil Ayouch passando per il Nuovo Cinema Rumeno svuotato e “in copia carbone” del Three kilometers from the end of the world di Emanuel Parvû) di un livello medio delle opere altissimo – e il modo completamente differente per ribadirla scelto da Arnaud Desplechin nel suo magnifico Spectateurs!. Ma anche il dolorosissimo continuare a guardare con desiderio la moglie morta (e le sue mutazioni, e le sue specularità) del David Cronenberg di The Shrouds alla fin fine nient’altro è che affidare alle immagini, e quindi al cinema, la propria stessa sopravvivenza e la propria stessa ragione di vita, e dall’altra parte tutte le ossessioni di più di cinquant’anni di una filmografia unica e sempre più preziosa. Come pure lo sono la riscrittura del (proprio) cinema lungo lo scorrere del tempo con cui Jia Zhang-ke ha cucito insieme lo splendido Caught by the tides, o il Grand Tour panasiatico di Miguel Gomes fuori dal tempo e dallo spazio per ritrovare il senso stesso della narrazione, o la confessione (im)possibile affidata rigorosamente alla macchina da presa (pur ritrasformata in “umana” da un gioco di specchi) dal Richard Gere alter-ego schraderiano di Oh, Canada. Senza dimenticare la formazione dell’immaginario di Paolo Sorrentino racchiusa nella parabola di Parthenope, i ben precisi lavori sui generi in cui Mohammad Rasoulof, Jacques Audiard e Alain Guiraudie hanno rispettivamente forgiato l’urgenza politica iraniana, la redenzione (cantando) nel cambio di genere e l’ironia più scorretta d’Europa, o ancora l’intelligentissimo gioco di aperte meta-citazioni messe in scena (e meritatamente premiate per la miglior sceneggiatura) da Coralie Fargeat in The Substance, e soprattutto la dichiarata megalomania di Francis Ford Coppola sin dal titolo del suo Megalopolis, opera d’arte totale che è impossibile rinchiudere nei confini di un “semplice” film, e progetto cinematografico troppo manifestatamente grande per essere ridotto alle categorie limitative del ‘bello’ e del ‘brutto’, del ‘riuscito’ o del ‘non riuscito’. Un film da fare semplicemente perché da fare, per se stesso, per la Storia, per la settima arte, per sfondare i limiti dello schermo e portare un attore sul palco a interagire con le immagini, quintessenza coppoliana e forse dell’intero grande cinema americano, e ancora una volta identità che passa attraverso le immagini, proprie e altrui. Immagini viste e vissute, amate, capite, rimasticate, formative, e ora magnificamente sovrapposte agli scorci di vita, ai sogni, ai voli pindarici, alle scelte non solo artistiche di chi ancora oggi continua a farsi formare e a formarci, come spettatori e quindi come individui.
È Andrea Arnold con Bird, la grande esclusa (e in realtà inspiegabile, con il film che forse più di tutti per coraggio, profondità e unicità dello sguardo avrebbe meritato la Palma d’Oro) dal Palmarés di fine edizione. Nonostante, a guardare la lista dei premi, sia abbastanza evidente come la giuria capitanata da Greta Gerwig abbia seguito una logica nell’assegnare gli allori in cui la regista britannica, autrice di un cinema ben più giovane e fresco di quanto i suoi sessantatré anni all’anagrafe farebbero supporre, come del resto fa un cinema ben più giovane e fresco dei suoi settantadue il doppio premiato Jacques Audiard, sarebbe stata una perfetta rappresentante. Una posizione magari non del tutto condivisibile ma ben chiara, che da una parte lascia fuori tutti i “grandi vecchi”, per quanto autori di ottimi film, per cercare (con più o meno successo, ma non è questo il punto) idee di cinema e autorialità (più) “nuove”, e dall’altra rifiuta di cedere alle pressioni (anche politiche) di chi chiedeva a gran voce la Palma d’Oro a Rasoulof, preferendo chiedere per il suo film l’istituzione di un Premio Speciale (che alcuni bookmakers, ricordando la «Palma speciale per un film speciale» chiesta al tempo di Le livre d’Image da Cate Blanchett per premiare Godard, si aspettavano potesse venire concesso, ma per Coppola lasciato invece del tutto a mani vuote), e tributando invece il massimo riconoscimento all’indie americano di Sean Baker (Anora), seguito a ruota dal Grand Prix a All We Imagine as Light di Payal Kapadiya e dall’impeccabile – questa sì – decisione di incoronare per la Miglior Regia il Grand Tour di Miguel Gomes. Per quanto, come sempre, i premi lascino in realtà il tempo che trovano. Non sono semplicemente un gioco, perché in grado di muovere milioni nella spinta o meno di un film, eppure non sono loro – né necessariamente i concorsi principali – a scrivere la storia del cinema. La scrivono i film, le visioni, i percorsi immaginifici, i linguaggi, la dialettica, i ragionamenti personali e collettivi. La scrive (ancora), come si diceva, da CannesClassics Jean-Luc Godard, che anche da morto continua a fare un altro sport, e la scrive da CannesPrèmiere Carax che gli si avvicina umilmente per tentare di giocare secondo le stesse regole. La scrive Hayao Miyazaki, che al Premio alla Carriera tributato allo Studio Ghibli manda il figlio Gorō, ma anche l’emozionante prima internazionale di quattro corti meravigliosi (il dolcissimo seguito di Totoro Mei and the Kitten Bus, le onomatopee e la sostanziale Pippi Calzelunghe di Looking for a Home, l’intero mondo che emerge nei pochi minuti di Mr. Dough and the Egg Princess e la computer grafica del tutto invisibile di Boro the Caterpillar) che non erano mai usciti dal Museo Ghibli di Tokyo. La scrive l’animazione francese (comprese le co-produzioni con il Giappone, Ghost Cat Anzu, e con la Lituania, Flow), in un tale stato di salute che anche il Festival di Cannes con tutti i suoi ancestrali pregiudizi (si pensi a La storia della Principessa Splendente di Takahata relegato nel 2013 alla Quinzaine, o in generale alla totale assenza di titoli di animazione nel concorso principale dal 2008 di Valzer con Bashir fino a rompere la tradizione solo quest’anno con La Plus Précieuse des marchandises di Hazanavicius, unico titolo dimenticabile della batteria animata) è stato in qualche modo costretto a selezionare ben sei (sette, contando anche il semi-animato live action Los Hiperbóreos di Leon-Cociña) “cartoni”. Salvo poi magari relegarli in proiezioni enfants, come successo a Barras, o addirittura in spiaggia e poi doverli riprogrammare come capitato al maestro Laguionie, ma questa è un’altra storia, che non ha senso mettersi ad affrontare in questa sede, perché non può scalfire le immagini, il loro diventare ricordi, il loro dolce innestarsi lungo un infinito percorso di formazione, di passione, di vera e propria vita che passa attraverso il buio di una sala. Vivere per guardare, guardare per vivere. Tornare, ancora una volta, a casa e all’esistenza quotidiana, magari con qualche rimpianto per ciò che inevitabilmente si è perso in un carrozzone sempre più agli antipodi dalla misura d’uomo, ma con il cuore ancora e per sempre gonfio di quello che invece si è materializzato davanti agli occhi, su uno schermo bianco dove ogni sogno può diventare contorno, e dove Jean-Luc Godard potrà continuare all’infinito a vivere la sua ultima notte e il suo ininterrotto, inestimabile flusso di pensieri.
Marco Romagna