76 MINUTES AND 15 SECONDS WITH KIAROSTAMI (2016), di Samadian Seifollah
Nella mia piccola notte il vento, e le foglie si ritrovano.
Nella mia piccola notte la paura, è distruzione.
Ascolta, senti il frusciar dell’oscurità?
Io guardo meravigliato, questa felicità. Del mio pessimismo, son dipendente.
Ascolta, senti il frusciar dell’oscurità?
Ora nella notte qualcosa sta passando, e la luna rossa è in allarme.
Su questo letto, che ogni attimo teme il crollo, le nuvole, come un popolo in lutto,
attendono il momento della pioggia.
Un momento e subito dopo… nulla più.
Dietro questa finestra la notte trema e la terra arresta il suo girare.
Oltre la finestra, un estraneo si preoccupa di me e di te.
Oh corpo rigoglioso…le tue mani come doloroso ricordo, poggia tra le mie innamorate.
E le tue labbra, come una sensazione calda di vita, lasciale carezzare le mie labbra innamorate.
Il vento ci porterà via.Forugh Farrokhzad, testo tratto dal film Il vento ci porterà via, di Abbas Kiarostami
Spesso ci si interroga con quel senso stretto di una perdita, e spesso questo senso si allarga pensando non tanto alla mancanza di un’anima, ma al peso specifico dell’atto in potenza che mai più potrà essere. Come se nella retina di chi se ne va potesse conservarsi un immagine all’infinito, come detonatore fisico di una storia oramai altra, l’ultima immagine del (proprio) mondo – come Herzog ebbe il coraggio di rispondere a Messner appena sceso dalla doppia scalata del Gasherbum.
Abbas Kiarostami è (stato) non solo uno dei più grandi autori del cinema alle soglie della contemporaneità, ma un uomo dai gesti semplici e che continuamente ci ha invitati ad abitare lo spazio dei propri film. Un uomo, dunque, e il suo eterno contatto con la macchina da presa ad alternarsi nel mostrare quello che (non) siamo per cercare costantemente il senso ineliminabile del nostro poetico stare qui, nelle molteplici fratture e direzione che un suo istante filmico donava a ciascun spettatore. Così, anche approssimativamente, quest’anno la Mostra ha voluto aprirsi nel suo nome (e in quello di Michael Cimino), quasi ci fosse bisogno di render(ci) conto che un immagine mai andrà persa perché spesso un film siamo noi stessi a concepirlo con l’atto mancante di una visione, quello di chi non c’è più, quello di chi rifletteva una personalissima realtà magica di conoscenza del mondo.
Alla ricerca dell’elemento. In Take me home compaiono sostanzialmente due soggetti, un pallone da calcio digitalmente costruito, e una serie di scalinate di varie città in giro per l’Italia. Rotola il pallone, per una prima volta il bimbo lo riesce a recuperare, pare perso per sempre. Cade e scivola, come la piuma di Forrest Gump, come qualcosa che non può più appartenere. A fermare la reiterazione solo il tempo può qualcosa. Dopo sedici minuti si ferma, e il bambino affannato le segue ancora. Finalmente lo porta in casa, forse quel pallone chiedeva solo quello. 24 Frames (Before and After Lumiere) sarebbe invece stato il prossimo progetto sperimentale di Kiarostami, una serie di cortometraggi da quattro minuti e mezzo l’uno, sulla base di cinque dipinti e diciannove fotografie dedicate all’introduzione del movimento temporale all’interno del fermo immagine. Il frammento numero sedici (presente a Venezia) coglie una dialettica di piccioni in corteggiamento alla finestra, tutti attorno all’unico in ombra dietro la tenda. Quando lui scompare il film si chiude. L’elemento è fragile in entrambi questi piccoli e dolcissimi affreschi, quasi se fossero i moniti di una perdita.
In mezzo a questo programma, un film che nemmeno doveva essere e che (purtroppo, in un certo senso) è stato. 76 minutes and 15 seconds with Kiarostami è infatti poco più di una bozza, un non finito, qualcosa che sfugge a qualsiasi interpretazione possibile legata anche all’essere un documentario. Samadian Seifollah è stato negli ultimi venticinque anni probabilmente il più grande amico e collaboratore (d.o.p) del regista iraniano, e spesso lo ha accompagnato in detour fotografici senza meta, a cercare qualsiasi immagine potesse ancora sorprendere. A fianco a lui talvolta anche il figlio Amhad, in questa mini troupe cacciatrice di paesaggi. Da questa serie di esperienze, oltre a un gran numero di sublimi fotografie che anche qui si possono ammirare, germogliano centinaia di ore di girato pressoché familiare. In questo lavoro di purissima urgenza e verità entriamo a contatto dell’anima di Kiarostami, del suo senso rigoroso di dialettica continua e irriducibile sul reale e su chi lo abita. Da bimbo gioca con la neve volendo preservare l’attimo in cui il sole la trafigge per catturarne i riflessi, da demiurgo stampa degli alberi cartonati da incollare a dei tubi per un installazione, da uomo cerca i vecchi attori dei suoi film per chiedere cosa sia per loro la vita fuori da un fotogramma. Si diverte con quel nuovo aggeggio che è il digitale mentre su un set improvvisato in mezzo al diluvio i suoi assistenti lo inseguono con un ombrello. Una compresenza di elementi e di possibilità, di un esploratore nelle necessaria oscurità della propria ricerca aspettando che sia la stessa realtà ad indicare un possibile via spirituale, di mediazione tra bellezza e purezza.
Nell’impossibilità agognata (e quasi commossa) di aggiungere altro, e nella costante inutilità del senso di questo/i scritto/i che mi persegue, consola forse l’aspettarsi che questo non finito possa ampliarsi e continua a fluire come qualcosa che mai (ci) possa abbandonare. Ma allo stesso tempo che mai possa diventare finito, perchè mai un senso di finitezza potrà appartenere a questo piccolo grande uomo rinascimentale che attraverso i rapporti tra le proprie arti (fotografia, poesia e pittura su tutte) è riuscito costruire un’immagine perennemente vitale e mai realmente finita. Perché, mentre sta scattando, riesce a catturare un’immagine che ai nostri occhi non esiste, quasi come se fosse creata, mistero di presenza che solo nel bagno mistico della camera oscura si rivela al nostro sguardo. Un eterno cortocircuito di amori tra la spontaneità della natura o dell’anima e la stessa convezione tecnologica o sociale, un eterno contrasto che dalle più complesse strutturazione scientifiche, filosofiche ed esistenziali sull’essere diventano canto di gioia, libertà e leggerezza. Proprio dopo oggi, dopo questi piccoli grandissimi doni che Abbas ha voluto lasciarci, penso a Godard, che proprio con lui amava chiudere la storia del cinema, la stessa che i Lumiere l’avevano aperta e che lo stesso Kiarostami avrebbe omaggiato nel prossimo film, mai vis(su)to. Un cerchio si chiude, per chiudere tutta la concatenazione basta davvero poco. Dopo questi ultimi (?) settantaquattro minuti restano una manciata di secondi, perché lo svelarsi non è più il dispositivo della rappresentazione, ma quello della volontà, dello stare qui. Mentre un altro set è improvvisato, il bimbo Abbas corre a perdifiato alle pendici di una collina, bimbo tra i bimbi come quelli con cui volle vedere il mondo nei suo primi film. E’ solo una questione di occhi e di cuore, l’esserci e l’esserci stato, lo scomparire e il rivivere infinitamente nelle corrispondenze espanse di tutto quel ritorno circolare che ha il sapore di un percorso, quello del cinema come umilissimo e poetico linguaggio della vita.
Erik Negro