75° Festival de Cannes_17-28 maggio 2022_Presentazione
Sarà la scalinata in fondo al set di The Truman Show, curiosamente presentato al tempo nell’acerrima nemicamica Venezia, quella da salire per giungere fino alla Palma d’Oro 2022. La terza scala di sempre, dopo gli incastri cromatici del 2005 e l’omaggio a Le mepris del 2016, che dai poster ufficiali che ornano la Croisette si affianca a quella tradizionale che nelle sale introduce ogni proiezione sulle note del Carnevale degli Animali. Ed è in effetti una salita altamente simbolica, quella di Jim Carrey/Truman, un “uomo vero”, come il nome del personaggio suggerisce, finalmente libero da una vita di inconsapevole schiavitù mediatica, che si (ri)appropria di un’esistenza comune, ordinaria, finalmente autentica, mentre le dita della sua mano toccano quella parete del teatro di posa che, lontano e impercettibile per lui che ci era nato e cresciuto, senza che il protagonista lo sapesse aveva sempre diviso la realtà dalla finzione, la vita dallo spettacolo, il vero dalla menzogna, il sentimento dall’inganno. Nel finale del film di Peter Weir, oltre quel mare (falso) che sempre lo aveva terrorizzato, Truman riesce finalmente a guardare oltre i confini che gli erano sempre stati imposti, allargando definitivamente i suoi orizzonti verso il mondo, l’autodeterminazione, la vita, il libero arbitrio. La normalità. E del resto cosa vuole essere questa settantacinquesima edizione del Festival di Cannes, se non una riappropriazione proprio come quella di Truman? Un ritorno alla normalità, appunto, con il riaffacciarsi sulla consueta seconda metà di maggio dopo l’edizione 2020 saltata a piè pari e l’anomalo slittamento di quella dello scorso anno a luglio, con il conseguente ritorno dell’etichetta dopo l’unicum dei calzoni corti concessi nella torrida edizione estiva, ma soprattutto con la consapevolezza di essere il primo evento così grande a ritornare senza obbligo di mascherine, con le norme francesi a rendere se possibile ancora più perplessi sulle prescrizioni oramai solo italiane che ancora si ostinano a punire e (scientificamente?) affossare il comparto culturale.
Ma non divaghiamo. Torniamo alla normalità, al riappropriarsi delle abitudini, alla capacità (o meno) di guardare oltre. Le croci e le delizie di Cannes75, l’ultima sotto la presidenza Pierre Lescure al quale dal prossimo anno succederà (con più o meno dichiarate intenzioni gattopardesche) Iris Knobloch, mentre il delegato generale Thierry Frémaux, in sella dal 2001, rimarrà probabilmente ancora a lungo al suo posto. Un’edizione in cui, come prima di ogni edizione, è facile sentir sussultare il cuore cinefilo per la presenza di David Cronenberg che torna al body horror per chiudere definitivamente (?) il discorso, per Kelly Reichardt in lizza per la Palma con Showing up, per l’EO di Jerzy Skolimowski che rifà Au hasard Balthazar, per l’Armageddon time di James Gray, per l’anteprima completa delle cinque ore dell’Esterno notte di Bellocchio e dell’Irma Vep seriale di Assayas, o ancora per il ritorno di Albert Serra, per quello di Sergej Loznitsa mentre nella sua Ucraina infuria la guerra, per Patricio Guzmán che torna a scandagliare il Cile o per George Miller ancora dietro alla macchina da presa sette anni dopo Mad Max, fino a Mario Martone finalmente legittimato anche oltralpe con il suo Nostalgia ospitato in concorso. Per poi magari, allargandosi verso l’indipendenza di una Quinzaine giunta all’ultima gestione di Paolo Moretti, ritrovarsi ancora negli sguardi di João Pedro Rodrigues o di Léa Mysius, di Mia Hansen-Løve o di Pietro Marcello, di Véréna Paravel/Lucien Castaing-Taylor o di Philippe Faucon, della scrittrice Annie Ernaux all’esordio alla regia dopo che il suo L’événement affidato ad Audrey Diwan è diventato l’ultimo Leone d’Oro, o riconoscersi nelle brevi distanze – rispettivamente 8 e 18 minuti – con cui si presentano Jan Soldat e soprattutto Radu Jude, che già dal titolo The Potemkinists alza l’asticella verso un qualcosa di politicissimo e al contempo iper-teorico, fra Ėjzenštejn e la sempre frastagliata Storia di Romania. Eppure, a ben vedere, questa Cannes 2020 è anche un’edizione che, al di là dei proclami simbolici sull’allargare lo sguardo come Truman oltre il muro, specialmente nella sua selezione ufficiale non riesce a configurarsi come nient’altro che la solita Cannes. Nel tanto, tantissimo bene del suo prestigio e della sua potenza, per cui è fisiologico e semplicemente inevitabile che la Costa Azzurra finisca per ospitare una nutrita quota di grandi film di grandi autori, ma anche nel male dei suoi ormai abituali limiti geografici e di sguardo, dove fra la percentuale vertiginosa di co-produzioni francesi, la poca Asia, il pochissimo Sud America e la pressoché inesistente Africa, non sembra esserci spazio per una reale ricerca, né un reale interesse per le cinematografie meno battute. Ci sono i soliti autori, anche loro nel bene (a volte benissimo) e nel male (a volte malissimo), fra i Dardenne e Serebrennikov, Koreeda e Claire Denis, Ruben Östlund e Cristian Mungiu, Baz Luhrmann e Quentin Dupieux, Park Chan-wook e l’immancabile (inspiegabile) Hazanavicius addirittura ad aprire fuori concorso. E persino la più che legittima ‘promozione’ di Lucas Dhont alla competizione principale, quattro anni dopo la vittoria di Victor Polster come miglior attore di Un Certain Regard per Girl, non ha (più) le caratteristiche della scommessa, ma è per il Festival un semplice accompagnare un ‘proprio’ autore lungo il cursus honorum della Croisette. Lo stesso cursus honorum che riporta ancora una volta sugli schermi i Classici restaurati al posto di una retrospettiva minimamente strutturata, dove fra Salle Buñuel e Plage è ovvio il piacere di poter rivedere La maman et la Putain o ET, Sciuscià o The last waltz, ma manca del tutto una linea guida, un percorso, la stessa volontà di rileggere il cinema del passato in funzione del presente.
Tanto che è difficile, ripensando ancora alla scelta di The Truman Show come simbolo e dichiarazione programmatica di Cannes75, non stratificare ancora e fare un passo (sovra)interpretativo ulteriore, immergendosi consapevolmente nel paradosso in una lettura molto distante dalle intenzioni della committenza e degli autori del poster. Perché nel suo essere così ostentatamente IL Festival, a ben vedere, Cannes è a sua volta una grande messinscena, un grande Truman Show fatto di montées des marches e di farfallini ad agghindare gli abiti da sera, in cui come nella Seaheaven artificiale di Truman è di fatto un passaggio segreto – un ascensore, uno solo, nascosto e senza alcuna indicazione – la porta d’accesso che divide il falso dal vero, il mostrarsi dall’essere. Per guardare oltre il carrozzone, e ritrovare così l’umanità, il calore di una battuta, l’uguaglianza di chi lavora dietro le quinte, bisogna scendere giù a -2, e poi fino alla mensa. Bisogna avventurarsi in quel luogo nascosto due piani sotto terra nelle viscere del Palais, così lontano, nel suo corridoio di servizio grigio e senza finestre sormontato da un gigantesco tubo dell’aria condizionata, dai lustrini di grandeur che costantemente rifulgono nei piani antistanti. Un luogo dove ritrovare un'(anti)oasi di inaspettata gentilezza proletaria, perfetto e opposto controcampo dei piani di sopra in cui ogni pedina dell’evento può almeno per un attimo appoggiare la sua maschera d’etichetta, addentare con gusto il camembert e finalmente essere se stesso anziché dover apparire qualcos’altro. L’unico luogo dove non esiste più il colore dell’accredito, dove il classismo su cui Cannes quasi si fonda è del tutto annullato dall’uguaglianza dei vassoi del self-service, e dove nemmeno i ruoli sociali contano più nulla, con poliziotti, inservienti del palazzo, maschere, buyer e giornalisti seduti per qualche minuto alla stessa tavola: i pennacchi delle uniformi e le borse dei computer, le scope in un angolo e i “cannoni” delle macchine fotografiche a riposare di fianco, la portata principale ogni giorno diversa e la discutibile convinzione transalpina che la pasta sia un contorno. La solita Cannes che più ci piace, quella nascosta, quella fatta di persone normali, che lavorano e che ancora trovano il tempo, lontani dalle folle e dalle telecamere che si accalcano qualche metro al di sopra delle loro teste, per sorridere sinceri a chi hanno di fronte.
Per il resto, come si diceva, sarà Cannes, sempre Cannes, la solita Cannes. Due settimane fatte di cinema intensivo, di spostamenti su due ruote, di scrittura matta e disperatissima, di sonno quasi nullo, di passione sempre irrefrenabile, di consapevolezza entusiastica di essere nel centro del mondo. Due settimane di gioie, di scoperte, di scambi di opinioni, di corse in Rue d’Antibes fra una sala e l’altra, di continui controlli di matrice aeroportuale e di selvagge somatizzazioni cutanee della stanchezza e della tensione. Due settimane di stressanti sveglie all’alba per (non riuscire a) prenotare i biglietti delle singole proiezioni, fra Bad Gateway 504, Service Unavailable, Ticket Pending, Server Error e sadici Désolé finali proprio quando dopo due ore sembra di essere riusciti ad accaparrarsi il prezioso titolo d’accesso; il probabilissimo antipasto del ritorno per gli accrediti di basso livello (leggasi: noi, ma ovviamente non solo) a lunghe ore di coda sotto pioggia e sole senza la minima certezza di riuscire a entrare in sala. Due settimane di nottate passate di fronte al computer a cercare di dare una forma alle idee, di incastri di proiezioni da far quadrare studiando il programma quasi a memoria e aggiornando compulsivamente il sito di ticketing, di formazione personale con cui ogni anno crescere ancora. E di caffè, infiniti, uno dietro l’altro, mentre si ignora quasi del tutto il mare per non smettere di guardare il monitor su cui si lavora sulla Terrazza dei Giornalisti. Non resta che spegnere le luci e immergersi nelle sale, il Gran Teatro Lumière, la Debussy, la Bazin, la Buñuel, il Marriott della Quinzaine e il Miramar della Semaine, l’Alexandre III e il Les Arcades di ACid, il magnifico multisala a La Bocca già pre-inaugurato lo scorso anno, e quella ormai ex Soixantième per le repliche del giorno successivo che da quest’anno, per sempre, sarà dedicata alla grandissima Agnès Varda. Ed ecco, nella riappropriazione della solita Cannes, la reale novità, l’unico reale tentativo di guardare oltre quel muro, forse il vero punto d’arrivo della scalata di Truman. Non si può che esserne enormemente felici. Per Agnès destinata così a vivere in eterno in ogni immagine che ospiterà, per Cannes, per il cinema. Per chi ancora si ostina ad amarlo, magnificamente ossessionato. Nonostante tutto.
Marco Romagna