75. Berlinale – Internationale Filmfestspiele Berlin_13-23 Febbraio 2025_Presentazione
Si apre sotto una fitta nevicata l’edizione numero 75 della Berlinale, la prima sotto l’egida della nuova direttrice artistica statunitense Tricia Tuttle. Un evento metereologico di certo non particolarmente raro in questo periodo e a queste latitudini, eppure al di là di qualche sparuto fiocco caduto negli ultimi giorni nel 2023 era da diversi anni che non capitava di vedere nel periodo della FilmFestSpiele una Berlino totalmente ricoperta da una coltre bianca, che sin dalla prima scarica ha iniziato subito a posarsi cambiando nel giro di pochi minuti i colori e i connotati della città, per poi diventare di minuto in minuto sempre più spessa. Quasi come se la capitale teutonica, già per Storia, fascino e costanti mutamenti città incessantemente magica, avesse scelto di travestirsi da presepe innevato per presentarsi almeno per il primo giorno ancora più bella agli ospiti accreditati, ricoperta da un lungo abito bianco sul quale ritrovarsi, quasi come bambini, a giocare allo Spellbound di Hitchcock creando un lungo solco le ruote delle valigie. Del resto, anche il Sony Center di Potsdamerplatz sembra essersi vestito elegante, nuovamente ritirato a lucido dopo diversi anni di lavori (a parte il vecchio CineStar da tempo definitivamente chiuso, il cui ingresso è ancora lì, in stato di totale abbandono…) come da progetto originario di Renzo Piano, e di fronte al Berlinale Palast è stato per la prima volta aperto come sala festivaliera lo Stage Bluemax Theatre, che sarà centro nevralgico (soprattutto) della nuova sezione Perspectives, giunta con i suoi quattordici titoli a sostituire Encounters (e quindi un certo tipo di ricerca nel linguaggio, che però in qualche modo potrebbe essere almeno parzialmente compensata da un ripotenziamento di Forum che, in sostanza sopravanzato da una sezione ufficiale, negli anni di Chatrian aveva inevitabilmente perso un po’ di terreno) spostando ora il fuoco su opere prime ancora inevitabilmente da scoprire. Un cambiamento nella direzione dello sguardo che, al di là della qualità dei singoli film (che si spera ovviamente sia alta) e della coerenza o meno della selezione/programmazione (saranno i prossimi giorni di visioni e pensieri a dare una risposta), rende già evidente il tentativo di un cambio senza troppi scossoni ma deciso, con cui la direzione Tuttle fa in modo di mantenere la FilmFestSpiele più o meno per quella che è sempre stata (ri)traslando però l’asticella della sua identità, come del resto chiesto espressamente (anche se non necessariamente a ragione, anzi…) dal Ministero tedesco committente e organizzatore della Berlinale, verso un cinema e un evento più pop (e per questo con ogni probabilità almeno in parte depotenziandolo, con meno zampate e voglia/possibilità di osare) rispetto alla precedente gestione, capita solo in parte dalle alte sfere ma ottima e difficile da non rimpiangere proprio perché capace di scelte coraggiose e radicali, forte di uno sguardo, forte di un’idea di cinema ben precisa, e in realtà già perfettamente in grado (come già in precedenza a Locarno – e forse in futuro a Venezia?) di bilanciare il (necessario) integralismo avanguardista con il (necessario) gusto popolare.
È per questo che, al di là della neve, al di là della bellezza della città che sarà come sempre magnifico vivere in lungo e in largo da Potsdamerplatz ad Alexanderplatz fino allo Zoo e alla Karl-Marx-Allee, forse quello che sulla carta e in attesa della sala parrebbe potenzialmente essere (o magari no) un passo indietro di questa edizione 2025 è proprio il programma, che sembrerebbe cercare un ritorno (per quanto decisamente più asciutto e mantenendo più di un autore nel frattempo fidelizzato da Chatrian) verso quella che era la Berlinale di Dieter Kosslick a cui aggiungere una sezione più “personale” di esordi. Pur potendo vantare anche questa volta – verrebbe da dire quasi fisiologicamente, essendo un Festival grande e importantissimo come la Berlinale, ma altre realtà ci hanno insegnato come non ci sia mai nulla di scontato nelle linee programmatiche di una kermesse, che possono sempre e da un momento all’altro virare al completo disastro –, film anche molto attesi. A partire da Kontinental ’25 nuovo lungometraggio del genio rumeno già Orso d’Oro (con Bad luck banging or loony porn, dopo avere in precedenza già portato a Berlino, fra gli altri, Aferim! e Uppercase print) Radu Jude, girato con un cellulare e potenzialmente già fra i film dell’anno. Così come ci sarà Blue Moon di Richard Linklater, di nuovo in concorso a Berlino undici anni dopo Boyhood, e sempre nella competizione principale ci sarà What Does that Nature Say to You ennesima sortita nella dialettica poetica di Hong Sangsoo pronto questa volta a giocarsela, fra gli altri, con O último Azul nuova opera del brasiliano Gabriel Mascaro, con Girls on wire della cinese Vivan Qu e con Reflet dans un diamant mort di Hélène Cattet e Bruno Forzani. Fino al solito vagare avanti e indietro per le sezioni, per incrociare in Berlinale Special Mickey 17 con cui Bong Joon-Ho torna in America per dirigere Robert Pattinson e soprattutto Leibniz – Chronicle of a Lost Painting che il maestro novantaduenne Edgar Reitz dedica alla figura del filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, in Generation l’animazione fumettosa a bassissimo costo che Michel Gondry dedica alla figlia con Maya, donne-moi un titre, e in Panorama Peter Hujar’s day con cui Ira Sachs rimette in scena il dialogo fra il fotografo interpretato da Ben Whishaw e la scrittrice Linda Rosenkrantz affidata a Rebecca Hall oppure il documentario Paul con cui Denis Côté si affeziona ancora una volta a un essere umano che in qualche modo vince le proprie sofferenze psicologiche e sociali mettendosi a lavare vetri. Magari passando per qualche classico restaurato e per la Retrospettiva (abbandonata ormai da tempo da Cannes e Venezia, ma fortunatamente ancora baluardo di realtà come Berlino e Locarno) incentrata quest’anno su (per lo più introvabili) film di genere tedeschi degli anni Settanta. Fino a Forum, come di consueto organizzato dal Kino Arsenal e del tutto indipendente dalla selezione ufficiale della Berlinale (e come si diceva di ritorno agli antichi fasti dopo gli anni di ‘concorrenza’ di Encounters), nel quale ritrovare vecchi amori come il kazako Adilkhan Yerzhanov con il suo nuovo Cadet, l’avanguardista serbo (anche se forse in realtà sarebbe meglio dire ancora jugoslavo, fra i nomi più importanti dell’Onda Nera dei ’60-’70 e già due volte Orso d’Oro) Želimir Žilnik con la senilità di Restitucija, ili, San i java stare garde (Eighty plus), il documentarista ucraino-apolide Vitalij Manskij con Time to the target, i 16mm sperimentali di Lee Anne Schmitt impegnata questa volta in Evidence, e poi ancora little boy di James Benning, Underground di Kaori Oda e Canone effimero dei fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio. Eppure basterebbe guardare un qualsiasi programma del quinquennio Chatrian (non solo l’irraggiungibile edizione 2020, e non solo la scorsa che fiammeggiava fra Dumont, Assayas, Mati Diop, Sissako, Kiyoshi Kurosawa, Tsai Ming-liang e Amos Gitai, ma anche lo sfortunatissimo 2021 pandemico online, sempre con Jude e Hong ma pure con Céline Sciamma, Koberidze, Hamaguchi e Ruizpalacios, o la successiva annata ridotta con i vari Taviani, Bonello, Dominik, Argento, Baudelaire, Azevedo-Gomes e Guiraudie) per approcciarsi a questa edizione e a questo nuovo corso sì con grande curiosità, sì con speranze, sì con immutata passione, sì con la consapevolezza (e quindi con il sollievo) che almeno per ora la Berlinale è ancora la Berlinale, ma forse senza particolare entusiasmo preventivo. Se non quello di essere ancora una volta qui, chiaramente, tanto più se accolti dalla neve. A guardare, a scoprire, a sgomitare per fare i biglietti delle 7 e mezza del mattino. A sondare nuovi autori sperando sempre nella folgorazione. A cercare di capire con esattezza che cosa la kermesse di Potsdamerplatz voglia cercare di diventare, e a quale livello effettivamente punterà e saprà assestarsi.
Marco Romagna