30 Agosto 2017 - e

74ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica_30.08-09.09.2017_Presentazione

Non ci si ferma di fronte alla cappa di caldo umido ai limiti dell’insostenibile, non ci si ferma di fronte a un’annata cinematografica per ora non particolarmente generosa, non ci si ferma di fronte ai prezzi esorbitanti che vengono ogni anno pompati da chi affitta case e rifornisce di cibo il Lido di Venezia: fra motoscafi e tappeti rossi inizia ancora una volta, per la sua settantaquattresima volta, il Festival cinematografico più suggestivo e anziano del mondo. Anche se è proprio in questa anzianità che, paradossalmente, la Mostra edizione 2017 trova il suo principale limite. Sia ben chiaro, non è una tanto una questione di qualità dei film presentati, e anzi sulla carta la 74esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si preannuncia come un buon Festival, estremamente interessante e probabilmente superiore alle ultime e mediamente sottotono edizioni di Berlino e di Cannes, forte di almeno una decina di film “da vedere” e da amare. È un Festival che sembra proseguire soprattutto un ottimo lavoro, in costante crescita, sul cinema americano e anglofono, sia esso commerciale e di facile distribuzione o no, e in questo Venezia sta probabilmente surclassando Cannes, ponendosi ormai da anni come principale vetrina per gli Oscar. Ma c’è anche un palese, ancestrale, greve problema di sguardo. Un problema che non sta in quello che c’è, ma in quello che manca: sta nei film e negli autori, o meglio nelle intere cinematografie, assenti o quasi. Sta in un piglio ormai sempre più ottuso e monco, carente a livello di scavo nelle nazionalità e nelle potenzialità degli sguardi in giro per il mondo: pochissimi i film asiatici, nessun film africano, ancora più assurdamente nessun film est-europeo (dopo la vittoria di Konchalovsky l’anno scorso per la regia del pur modesto e discutibile Paradise, o ancor di più considerando lo sviluppo sempre più esponenziale del cinema rumeno) e nessun film sudamericano (anche questo curioso, per non dire incoerente, considerato il comunque immeritatissimo Leone d’Oro di Desde allà nel 2015). Il problema di Venezia, per lo meno di questa Venezia targata Barbera, è che nella sua selezione ufficiale preferisce ormai battere sentieri più conservatori, puntare forte sull’Italia, sugli Stati Uniti e sui linguaggi più codificati, a costo di sacrificare quella che dovrebbe essere la missione primaria di ogni Festival, ovvero la necessaria apertura verso la contemporaneità e il futuro del cinema, verso l’indipendente e l’avanguardia, verso i Paesi che più hanno bisogno di visibilità e più hanno urgenza nel trovare nuove forme per raccontarsi e riflettere su se stessi. E probabilmente non sarà la nuovissima sezione di realtà virtuale, relegata su un’isola lontana dal Lido e raggiungibile solo su prenotazione, a migliorare la situazione.

Certo, in questo Venezia è sempre Venezia. Un Festival che può avere limiti e problemi di varia natura, può avere linee guida ormai asfittiche, ma rimane pur sempre il secondo Festival più importante al mondo, una vetrina insostituibile nella quale vengono mostrati i film che comporranno la “collezione autunno-inverno” in giro per le sale di tutto il globo. Fra questi, vedremo il ritorno alla regia di Darren Aronofsky dopo anni dal flop di Noah con mother!, film che ha già fatto discutere dai suoi primi poster che citano Rosemary’s Baby di Polanski; e vi sono anche altri ritorni di registi che a volte sbagliano e che spesso invece colgono il punto del loro cinema alla perfezione, come Guillermo Del Toro con il suo nuovo fantasy bellico e sentimentale The Shape of Water o George Clooney con la commedia delirante Suburbicon. Fra i film più attesi, Andrew Haigh torna alla regia con Lean on Pete, e torna pure Abdellatif Kechiche con Mektou, my Love: Canto Uno, primo film da lui diretto dopo la Palma d’Oro a Cannes nel 2013 per La vita di Adele. Nel frattempo, il sempre più prolifico regista intimista giapponese Hizaku Kore-eda torna con il suo Sandome no Satsujin, mentre i Manetti Bros. tornano al cinema con un musical in napoletano dal titolo Ammore e malavita. Il festival si aprirà con Downsizing di Alexander Payne e si chiuderà con il terzo capitolo della trilogia Outrage di Takeshi Kitano, ovvero Coda, ma in mezzo ci sono anche eventi cinematografici e multimediali di tutti i tipi, dal nuovo lavoro di Tsai Ming-Liang all’interno della (preoccupante?) nuova sezione denominata Venice Virtual Reality la cui giuria è capitanata da John Landis alla rivisitazione del classico videoclip di Thriller di Michael Jackson girato dallo stesso Landis, dal film Human Flow dell’artista multimediale cinese Ai Weiwei all’ennesimo documentario di Wiseman (finalmente in concorso!) Ex Libris, fino agli aspetti più cine-televisivi che includono la serie Wormwood di Errol Morris e i primi due episodi della serie Netflix Suburra che verranno proiettati in Cinema del Giardino, forse come sberleffo alle controversie sul servizio streaming che si sono aperte a Cannes solo pochi mesi fa. Ritorna a Venezia anche Samuel Maoz, già in passato (discutibile) Leone d’Oro con Lebanon, con il suo nuovo Foxtrot, e torna Martin McDonagh con Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Il grandissimo Paul Schrader porta in concorso First Reformed, mentre Paolo Virzì giunge con il suo primo film internazionale Ella & John. William Friedkin porta invece fuori concorso il suo documentario su Padre Amorth e i “veri” esorcismi, mentre la sezione Orizzonti è praticamente capeggiata da Caniba, ritorno alla macchina da presa per Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel 5 anni dopo il clamoroso Leviathan. Si aggiungono alla lista di film probabilmente da non perdere, per un motivo o per l’altro, Zhuibu di John Woo, il documentario Piazza Vittorio di Abel Ferrara e Gatta Cenerentola, film d’animazione di Alessandro Rak, mentre in Venezia Classici invece possiamo scoprire e riscoprire i vecchi capolavori, molti dei quali conosciamo a memoria, di registi come Forman, Antonioni, Klimov, Mizoguchi, Godard, Spielberg, De Leon, Ferreri, Bertolucci, Ozu, Chabrol, Walsh e Whale.

Piatto ricco, senza dubbio; eppure, a così breve distanza, la differenza con Locarno si fa ancora più bruciante. Nella selezione di film del passato, dove Venezia Classici ci riporta alla mente capolavori che amiamo e ce ne fa scoprire di nuovi, ma senza uno sguardo definito da Retrospettiva, con i percorsi, la pellicola e le pubblicazioni che vengono puntualmente accantonati per seguire pedissequamente Cannes nella presentazione dei restauri effettuati durante l’anno, così come in Orizzonti, che invece che contenere idee diverse di cinema in un flusso coerente e interessante sembra ormai un calderone di film accatastati più o meno a casaccio in mancanza di una collocazione definita. Ma Venezia, per fortuna, non è solo la selezione ufficiale. A riportare al centro la ricerca e la coerenza di percorso emerge la SIC, la Settimana Internazionale della Critica capitanata per il secondo anno da Giona Antonio Nazzaro, fatta di opere prime di autori giovani che non hanno paura di osare, che non hanno paura di portare sullo schermo quella che è la loro visione del mondo e quelle che sono le loro modalità di ragionare per e sulle immagini. E non possiamo che citare Le visite, un corto del “nostro” Elio Di Pace, amico fraterno, collaboratore e scrittore per il nostro sito sin dalla sua nascita, motivo per il quale non possiamo che essere fieri di lui e felici che condivida la sezione con un altro autore che stimiamo come Bertrand Mandico. E poi c’è qualcosa che va oltre le nostre vacue parole, e probabilmente anche oltre i film. Ogni anno, basta fare il ponte, arrivare a Tronchetto e salire sul Ferry per il Lido, ed è impossibile non re-innamorarsi ancora di Venezia e dei suoi canali. La Sala Giardino non è più un buco per terra, e finalmente il portale della Sala Grande accanto al red carpet non è più sovrastato da quelle enormi e insulse placche plastiche a forma di plettro ma ha ritrovato la classe dei vecchi tempi. Anche al Lido, che di un miracolo come Venezia non è certo il salotto buono, il paesaggio migliora sensibilmente. Che sia di buon auspicio?

Marco RomagnaNicola Settis

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