16 Febbraio 2023 -

73. Berlinale – Internationale Filmfestspiele Berlin_16-26 Febbraio 2023_Presentazione

È da qualche anno che sembra essere ormai diventato un destino pressoché ineluttabile per la Berlinale quello di finire ogni volta, edizione dopo edizione, per rappresentare in qualche modo un simbolo sempre differente. Da quella di fine febbraio 2020, ovvero gli ultimissimi giorni di normalità prima che il Coronavirus sconvolgesse per più di due anni l’intero pianeta, per passare a quella costretta a cedere all’online nel 2021 blindato dalla piena pandemia, fino al compromesso dello scorso anno fra durata ridotta, mascherine FFP2 e tamponi quotidiani che, nelle speranze e nelle intenzioni, avrebbe dovuto anticipare la piena riappropriazione di questa settantatreesima edizione che si apre ufficialmente stasera nella capitale teutonica. E in effetti, per quanto riguarda il Festival, di un ritorno a pieno regime si tratta, con la restituzione dei consueti undici giorni su cui articolare il programma e la manifestazione, con un numero di titoli e di accreditati perfettamente sovrapponibile al pre-Covid, con la solita riposta del pubblico di una città fra le più cinefile d’Europa. È però proprio la città, la (stavolta inaspettatamente non troppo) efficiente Berlino, a suggerire come per la reale riappropriazione sarà necessario aspettare ancora un po’ di tempo, per lo meno un altro anno, mentre questa Berlinale, del tutto incolpevole ma sfortunata nei fattori esterni e nelle condizioni ambientali in cui si dovrà svolgere, verrà invece con ogni probabilità ricordata come quella della provvisorietà. Quella della metropolitana, in primo luogo, da sempre rete impeccabile fra U Bahn, S Bahn e treni urbani e invece questa volta problematica, piena di interruzioni che coinvolgono tutte le linee, di tratti da percorrere obbligatoriamente in autobus in un traffico giocoforza congestionato, di necessità di inventarsi percorsi alternativi perché, non annunciata, sulla strada di un cambio treno si trova un’altra transenna. Così come sembrano incarnazione stessa della provvisorietà i profondi cambiamenti di una Potsdamerplatz in crisi, mai davvero decollata dal momento della costruzione, oramai semiabbandonata dai berlinesi durante l’anno e attualmente di nuovo cantiere. Con i lavori stradali transennati da continue pareti di legno fra il Sony Center e la Potsdamerstrasse che porta alla Marlene-Dietrich-Platz del Palast, con l’Arkaden (che ha cambiato nome e ora si chiama semplicemente Potsdamer) che finalmente riapre appena restaurato ma con solo tre o quattro attività a interrompere la lunga serie di serrande abbassate dove un tempo c’erano decine di opzioni di ristorazione low cost, e con la tanto celebrata “nuova sala stampa” inaugurata nel 2020 di fatto sparita nel nulla (così come quella al Grand Hyatt: è rimasta solo quella al piano inferiore del Palast). Ma soprattutto con una vera e propria, inedita, crisi di sale in una zona che ne aveva sempre avuto a dozzine, fra il CineStar chiuso dal 2019 e mai riaperto e il Cinemaxx che invece è in pieno rinnovamento, semplicemente splendido nelle poltrone reclinabili dei nuovi teatri già agibili ma ancora a mezzo servizio con i tanti altri in fase di ristrutturazione. Una situazione che ha costretto a dirottare buona parte delle proiezioni delle sezioni laterali fra il Cubix di Alexanderplatz, lo Zoo Palast, l’Haus der Berliner Festspiele e diverse altre sale sparse per la città, proprio nell’anno dei lavori alla metro e quindi dei tempi di percorrenza negli spostamenti molto più lunghi e non così facilmente prevedibili – basti pensare alla U2 che passa per il centro nevralgico del Festival in una sola direzione, mentre per l’altra non basta più andare a piedi alla vicina fermata di Mendelssohn Bartholdy-Park ma ci sono solo mezzi sostitutivi di superficie. Solo i prossimi giorni, fra l’entrata a pieno regime della Berlinale e l’adattamento di chi, appena atterrato, si è trovato di fronte a una serie di difficoltà inattese, sapranno dire se e come le alternative messe in campo (o meglio, in strada) dall’organizzazione tedesca per sopperire ai disagi dei lavori riusciranno a reggere la prova di una manifestazione delle dimensioni della locale FilmFestSpiele.

Quello che di sicuro funziona, alla prima e senza il minimo errore, è il nuovo sistema di prenotazione dei biglietti, non più dipendente da fornitori esterni ma ospitato su un sito interno, di dominio Berlinale e appoggiato su un numero di server sufficienti per non andare in crash nemmeno al momento del picco delle richieste, a dimostrazione che la lezione di Cannes, pronto dopo un paio di giorni di zoppie a implementare lo stesso identico sistema, è servita, e che forse anche Venezia, passata dalla padella alla brace con il cambio Boxol-Vivaticket, avrebbe fatto bene a coglierla. Il resto lo potrà dire solo il buio della sala, quando gli schermi si inonderanno delle luci della (sulla carta estremamente stimolante) selezione, fra il ritorno di Philippe Garrel agli affari di famiglia (e questa volta al colore) di Le Grand Cheriot e quello di Christian Petzold con Afire, fra l’anime Suzume no tojimari di Makoto Shinkai e Music di Angela Schanelec, fra On the Adamant di Nicolas Philibert e il ‘nostrano’ Disco Boy di Giacomo Abbruzzese, fra l’Infinity Pool di Brandon Cronenberg e In water di Hong Sangsoo, fra il Massimo Troisi secondo Mario Martone di Laggiù qualcuno mi ama al Lois Patiño di Samsara, fra Le porte di Bergamo con cui Stefano Savona racconta l’epicentro della pandemia e la salvadoregna Tatiana Huezo che, dopo Tempestad al Forum 2016 e Prayers for the Stolen alla Quinzaine 2021, torna questa volta in Encounters con The Echo. Una Berlinale che si aprirà con Rebecca Miller e il suo She came to me, e che per quasi due settimane si articolerà nelle sue consuete sezioni tutte con una ben precisa vocazione, in una miriade di possibili percorsi dal concorso principale ai linguaggi di Encounters, dall’identità sociale e queer di Panorama al fuori competizione di Berlinale Special, passando per l’indipendenza di Forum e del più smaccatamente sperimentale/installativo Forum Expanded, per la gioventù di Generation, e poi ancora per i classici, per la retrospettiva sui coming of age la cui composizione è stata affidata a grandi autori amici, e per il premio alla carriera a Steven Spielberg omaggiato con un’intera sezione di otto suoi lungometraggi che culminerà con la prima tedesca di The Fabelmans. Così come troverà a questa Berlinale la sua prima tedesca Tár di Todd Field, che verrà presentato in Special Gala pochi giorni prima dell’uscita in distribuzione, fra il nuovo documentario di Alex Gibney, questa volta sul talento tennistico di Boris Becker, e la virtuosistica visione della regia secondo David Wnendt, che già dieci anni fa a Locarno si era fatto notare con Feuchtgebiete e che il gruppo di lavoro di Carlo Chatrian continua coerentemente a coltivare anche in terra germanica. Come pure si trova Ira Sachs con Passages, scorrendo fra le pieghe del programma, o Claire Simon con Notre Corps, o Vitaly Mansky con Eastern Front, o ancora Sages-femmes opera quarta della cineasta di famiglia circense Léa Fehner che giunge a ben otto anni dal precedente, e sorprendente, Les ogres. Anche se forse, più ancora che mettersi a cercare ciò che si conosce, il modo migliore di districarsi fra le infinite possibili visioni della Berlinale è quello di vagare liberamente, senza (guardare troppo la) bussola, provando ad assaggiare, avendo voglia di scoprire, costruendo il proprio percorso sulla fiducia nelle sezioni. La faccia più affascinante di un Festival che, come di consueto, cerca ogni tipo di cinema, rappresentando più zone possibili del mondo e lasciando, a fianco dei grossi nomi, ampio spazio a opere prime e seconde, ad autori meno noti, a cinematografie meno battute e a sguardi alternativi, magari di sbieco, di certo personali e capaci di colpire. Ed è qui che la Berlinale numero 73, quella che si tiene in una città più che mai provvisoria, troverà ciò che invece provvisorio non è. Sono i film, quello che rimarrà. Sono le autorialità che li hanno concepiti. Sono le loro idee, i loro immaginari, i loro ragionamenti, i loro sogni. Il vero e principale motivo per essere qui e per superare ogni ostacolo vecchio e nuovo. Sempre in prima fila, a nutrirsi delle immagini, a respirarle, a viverle. Fino all’ultima diottria. Fino all’ultimo fuoco d’artificio.

Marco Romagna

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