72° Festival de Cannes_14-25 maggio 2019_Presentazione
L’apertura sarà affidata ai non-morti di di Jim Jarmusch, e poi ci sarà il pentito Buscetta secondo Marco Bellocchio, ci sarà Diao Yinan tornato alla regia a cinque anni dal magnifico Fuochi d’artificio in pieno giorno, e ci sarà l’habitué Arnaud Desplechin con le sue emozioni contrastanti e con la sua grazia tutta francese nel metterle in scena. Ci saranno i viaggi per il mondo di Elia Suleiman inseguito dall’incedere del fantasma della sua Palestina, ci sarà Terrence Malick con quello che si annuncia il suo ritorno a una fase più narrativa, ci saranno lo stile minimale e la lucidità politica di quel Corneliu Porumboiu fra le stelle più brillanti del Nuovo Cinema Rumeno, e ci sarà quasi all’opposto quella lirica con le radici innestate negli anni Novanta e lo sguardo sempre rivolto verso l’orizzonte di uno Xavier Dolan ormai al bivio dei trent’anni, non più enfant-prodige (in)consapevolmente ai limiti del controllo ma autore adulto e chiamato a dimostrare l’avvenuta e definitiva maturazione del suo talento. E poi, ovviamente, ci sono loro, i due grandi annunci posticipati da Thierry Frémaux, gli autori più attesi, attualmente ancora impegnati in una lotta contro il tempo per concludere (più o meno) definitivamente gli ultimi dettagli del montaggio e della postproduzione dei loro film. Ma le quattro ore dell’Intermezzo del Mektoub my love di Abdellatif Kechiche e l’attesissimo Once upon a time in… Hollywood di Quentin Tarantino, con l’ovvia parata di stelle che il regista di Knoxville porterà in dote da Leonardo Di Caprio a Brad Pitt, da Margot Robbie ad Al Pacino, da Bruce Dern a Dakota Fanning, saranno solo una piccola parte dell’imponente parterre de rois che la settantaduesima edizione del Festival di Cannes, sfavillante asso pigliatutto che dopo qualche anno di sostanziale supremazia veneziana torna realmente a fare il lavoro del principale Festival al mondo, porterà in questi giorni sotto i riflettori e fra i lustrini di Boulevard de la Croisette. Non solo nel concorso principale, il cui menu, pur con i soliti limiti di sguardo e di ricerca della selezione ufficiale, non era sulla carta così sostanzioso da parecchi anni, ma anche e soprattutto con la linfa e lo spirito di ricerca delle altre sezioni, dall’ufficialità di Un Certain Regard e delle Proiezioni Speciali fino all’indipendenza della “nuova” Quinzaine des Réalisatèurs, affidata all’italiano Paolo Moretti dopo i sette anni di direzione di Édouard Waintrop, passando per le opere prime della Semaine de la Critique e per la totale libertà, quasi clandestina nella sua direzione ostinata e contraria, di Acid.
Certo, se i Festival fossero solo la loro vetrina principale non sarebbe difficile leggere, a fianco dei grandi e grandissimi nomi in corsa per la Palma d’Oro, anche un confermarsi nell’altra metà dello scacchiere dei ben noti limiti di sguardo di un lavoro di selezione che raramente vuole e sa davvero osare, considerando il concorso una sorta di vetrina di lusso più che il reale frutto di una ricerca in una direzione ben definita. Sarebbe però un modo ozioso e limitativo, oltre che molto poco cinefilo, di guardare a un colosso festivaliero come il carrozzone che ogni anno a metà maggio trasforma la Costa Azzurra nel centro del mondo. Poco importa che le porte del concorso siano di fatto aperte a due sole sorprese, l’esordio assoluto del franco-maliano Ladj Ly e il primo film di finzione della francese Mati Diop, mentre a competere con i vari Tarantino, Kechiche, Suleiman, Céline Sciamma e Bellocchio ci sono i “soliti” e nei diciannove anni di direzione Frémaux pure un po’ ritriti Pedro Almodóvar, Ken Loach e i fratelli Dardenne, affiancati agli altalenanti e non sempre convincenti Jessica Hausner, Ira Sachs, Kleber Mendonça Filho, Bong Joon-ho e Justine Triet. Basta leggere più a fondo il programma, basta cambiare sala e sezione, basta spingersi verso gli autori, i linguaggi, i film. Alla ricerca di Werner Herzog, di Abel Ferrara, di Patricio Guzmán, di Gael García Bernal e dell’animazione di Waad Al Kateab ed Edward Watts come punte di diamante fra le Proiezioni Speciali, alla ricerca di Kantemir Balagov, di Olivier Laxe, di Albert Serra, della prosecuzione del Giovanna D’Arco di Bruno Dumont e delle solite immancabili sorprese in Un Certain Regard, ma soprattutto alla ricerca di un altro cinema e di un altro spirito uscendo dal Palais per spingersi fino al Marriott, storica sede di una Quinzaine sulla carta straordinaria nel debutto della nuova direzione e del nuovo comitato di selezione. Una Quinzaine che è contemporaneamente a più teste eppure splendidamente unitaria e identitaria nello sguardo, nella quale convivono in perfetta armonia il surreale di Quentin Dupieux e il bianco e nero di Lav Diaz, l’anarchia di Takashi Miike e la paura di Robert Eggers, il viaggio di Ala Eddine Slim e le metafore di Babak Anvari, e poi ancora Robert Rodriguez e Bertrand Bonello, Lech Kowalski e Gabriel Abrantes, Johnny Ma e Shahrbanoo Sadat, passando per un corto di Luca Guadagnino di cui nessuno sapeva assolutamente nulla, nemmeno che fosse stato girato, e per il nuovo complesso lavoro installativo del sempre interessante Gruppo Flatform. Alla ricerca della lucida follia, dell’urgenza, del barlume, dell’esperimento, di una – dieci, cento, mille – modalità di vedere e raccontare che diano nuova vita a quel piccolo miracolo chiamato cinema. Sempre partendo dalla strada maestra per scartare verso percorsi inediti e imprevedibili, proprio come grida in immagini quella magnifica dichiarazione programmatica del poster 2019 della sezione.
Già, il poster, o meglio i poster. Sta tutto nei due diversi poster ufficiali, entrambi magnifici, del 72mo Festival e della Quinzaine 2019. Da una parte l’omaggio solarizzato, doveroso e commovente nella sua semplicità, ad Agnés Varda intenta a girare il suo esordio La pointe courte, pronto a campeggiare per i prossimi dodici giorni sulle facciate del Palais fra le scale che portano al Gran Teatro Lumière e quelle che portano alla Debussy. Dall’altro la strada e la deviazione laterale, magari strisciata, magari di più difficile comprensione, della Quinzaine, con un percorso ardito e per molti versi mülleriano nell’autorialità del cinema di genere come in quella dei tempi dilatati, lasciando procedere a braccetto l’orrore e la politica, la Storia e la geografia, il rigore e il cinedelirio. Da un lato la Nouvelle Vague, che figlia del Neorealismo cambiò per sempre il cinema, e dall’altro il rinnovarsi della ricerca di un’onda ancora nuova, che scandaglia il presente alla ricerca del futuro. In una sinergia rinnovata, in un reciproco completarsi, in un reale ampliamento dello sguardo. Semmai, l’unica reale pecca del 72mo Festival di Cannes (e di Venezia, che da tempo ha deciso di seguire la stessa superficiale linea) è l’oramai radicata assenza di una retrospettiva realmente strutturata, da diversi anni sostituita dalla mera presentazione dei restauri disponibili in quel periodo. Certo, anche fra i Classici non mancheranno meraviglie e rarità, fra il trittico buñueliano L’age d’or, Los Olvidados e Nazarin, il Forman cecoslovacco de Gli amori di una bionda, l’epocale Dennis Hopper di Easy Rider, il De Sica di Miracolo a Milano, La (magnifica) prima notte di quiete di Zurlini, e ancor più il Kubrick di Shining, riportato non solo alla versione americana di per sé quasi mezz’ora più estesa rispetto a quella europea, ma a quei 146 minuti delle primissime proiezioni che nessuno ha mai più visto dal 1980, con il reinserimento di quelle ulteriori scene aggiuntive che lo stesso regista aveva deciso di tagliare dopo le prime settimane di programmazione. Quello che manca è però, anche di fronte alla riproposizione di capisaldi della storia del cinema, di una direzione, di un percorso, di una reale “lezione di storia”, senso di ogni retrospettiva, che riporti il passato nel presente e che lo renda profezia, intuizione, reale capolavoro.
Ma forse, paradossalmente, è meglio così, perché sarà difficile se non impossibile riuscire a stare dietro a un’edizione così tanto ricca. Saranno inevitabili, nella pletora di film capaci di scaldare i cuori cinefili, le sovrapposizioni d’orario con conseguente necessità di dolorose scelte, così come saranno inevitabili, al di là delle consuete code per accedere alle sale, i più amari sacrifici per ritagliarsi il tempo necessario per scrivere. Ma è bello, una volta tanto, ritrovarsi di fronte a una selezione che permette di parlare, in un pezzo di presentazione, quasi solo di cinema e di spasmodiche attese, senza la necessità di ricorrere a commenti o pronostici campati per aria su quelle che potrebbero essere le decisioni della giuria capitanata da Alejandro González Iñárritu, sulla querelle Netflix con il colosso dello streaming per il secondo anno consecutivo del tutto escluso dal Festival, oppure alla cronaca di colore sul formato ancora una volta verticale dell’accredito, sulle sostanziali classi sociali costituite dalla tinta del badge, sulle (più che motivate) polemiche che da più parti giungono per le famigerate proiezioni stampa in contemporanea con il gala che sono al contempo danno incalcolabile per gli orari ferrei delle redazioni cartacee e serio rischio di non riuscire a entrare in sala per le minori priorità d’accesso, sulla mancanza di sonno che peggiorerà ogni giorno lo stato psicofisico, sullo stato dei cantieri di fronte al Palais, sull’alternanza della mensa e dei più squallidi panini in attesa del pranzo finale all’Aioli, sull’anomalo alternarsi di caldo e freddo drammaticamente acuito dalla folle decisione dello scrivente di venire fino a Cannes in scooter, sui metal detector “aeroportuali” all’ingresso del Palais e sulle norme che mettono grossomodo sullo stesso piano di gravità le molestie sessuali e i selfie sul red carpet, sulla solita discutibile grandeur della solita scalinata che nella sigla dal mare arriva fino alla Palma come se non fossero i film e gli autori a fare il Festival, o ancora sulla consueta concentrazione di curiosi già dall’alba in abito da sera e alla ricerca di inviti che, rendendo pressoché impossibile camminare sulla Croisette, renderà obbligatori i percorsi alternativi passando da Rue D’Antibes. Correndo, o per lo meno tentando disperatamente di farlo, verso la prossima sala, verso il prossimo sogno, verso il prossimo film. In attesa della Palma, o per lo meno di una (sempre) nuova luce.
Marco Romagna