72. Berlinale – Internationale Filmfestspiele Berlin_10-16 Febbraio 2022_Presentazione

L’iconica antenna di Alexanderplatz è ancora regolarmente al suo posto, in questo tanto atteso e per nulla scontato ritorno in presenza della Berlinale. La Siegessäule dorata continua immobile a osservare la città dalla cima della sua colonna, la Porta di Brandeburgo continua a fare da spartiacque fra i vialoni della ex DDR, i frammenti di Muro lasciati come monito nel 1989 non sono stati spostati di un millimetro. Eppure Berlino sembra essere profondamente diversa, dopo questi due anni pandemici con in mezzo l’obbligato unicum di un’edizione online. Non tanto per l’ulteriore espansione architettonica di una città eterno cantiere che è normalissimo trovare ogni volta ancora più grande e ancora più bella, ma perché è per molti versi surreale ritrovarsi in una Berlino e in una Berlinale semideserte, con autobus e metropolitane che girano mezzi vuoti, con i locali nei quali era quasi impossibile riuscire a entrare che ora hanno intere tavolate libere, e magari con quelli a fianco chiusi e ormai del tutto abbandonati all’incuria e alle bombolette. È chiuso per lavori l’Arkaden, con il solo supermercato ancora raggiungibile da un’entrata secondaria, è rimasto per tutti i due anni chiuso (ma per fortuna ben tenuto, si spera in attesa di una prossima riapertura) il CineStar del Sony Center, buona parte degli ormai tradizionali camioncini street food hanno deciso quest’anno, in parallelo con gli accreditati, di disertare Potsdamerplatz, e perfino il glorioso City Hostel Berlin, da tanti anni ‘casa’ per molti affezionati della Filmfestspiele, ha chiuso per sempre i battenti nel corso di un incidente diplomatico fra la Germania e la la Corea del Nord proprietaria dell’edificio. In compenso, sono spuntati come funghi punti mobili dove poter eseguire i tamponi, che un regolamento cambiato in corsa meno di due settimane fa – forse dettato dal panico di un governo orfano della stabilità Merkel, o forse un calcolo lucidissimo per tagliare le presenze senza dover negare accrediti, ma spingendo una grossa mole di giornalisti ad autoeliminarsi per non rischiare quarantene a proprie spese in Germania – ha reso obbligatori per ogni attività riservata alla stampa (ma non per le proiezioni pubbliche, a cui previo prenotazione del posto è ammessa anche la stampa: basta organizzarsi…) anche ai vaccinati con terza dose. Come se la città fosse ancora ingabbiata in una fase intermedia, non ancora pronta a uscire da una lunga notte che pare stia finalmente preannunciando la sua fine con i primi bagliori all’orizzonte, ma che ancora non ha lasciato spazio al nuovo sorgere del sole.

Eppure è fondamentale che la Berlinale per la sua settantaduesima edizione sia ripartita sui consueti grandi schermi, nei suoi luoghi fisici, di nuovo insieme. Anche se con le sale al 50%, anche se con il fastidio della mascherina FFP2, anche se con molta meno gente del consueto, anche se per soli sette giorni (più tre di repliche per i soli berlinesi) anziché i soliti undici, anche se con la prenotazione obbligatoria dei posti che – questo è grave, non certo degno del terzo Festival europeo – vengono assegnati automaticamente, perfettamente democratici nel riuscire a scontentare praticamente ogni spettatore costretto a rinunciare alla ‘sua’ distanza e al ‘suo’ angolo di visione. Quello che conta è essere di nuovo qui, anche a costo di aver preso la decisione di venirci in macchina in una tirata di 1226 chilometri no stop per oltre 12 ore al volante, paradossalmente meno rischiosa di un volo di linea pieno e tracciato. Una riappropriazione che è più ancora delle altre un simbolo, una necessità, l’emblema che rappresenta al meglio l’uscita dal tunnel senza doversi muovere dalle proprie date di riferimento, ma rimanendo a febbraio, d’inverno, in totale discontinuità tanto con lo slittamento a luglio della scorsa Cannes quanto con la seconda Rotterdam consecutiva (o volendo anche terza, considerando la sessione “di richiamo” estiva 2021) costretta all’online e terminata solo pochi giorni fa. Del resto, erano stati proprio a Berlino gli ultimi momenti di normalità prima di una (quasi) fine del mondo, e non si può che ripassare da Berlino per tentare definitivamente di ritornarci. Nessuno poteva immaginare, in quella fine di febbraio del 2020 quando ancora ci si illudeva che il coronavirus sarebbe rimasto in Cina o al massimo su qualche pagina di fantascienza, che quelli in zona Potsdamerplatz sarebbero stati gli ultimissimi giorni di feste e di concerti, di abbracci e di volti scoperti che respirano liberi al chiuso, di risate con gli sconosciuti e di luoghi stipati in piena fiducia. È però evidente a tutti i presenti, oggi, come il ritorno al Cinemaxx, al Palast, alla U2, allo Zoo e ad Alexanderplatz non possa che essere una tappa fondamentale nel riappropriarsi delle proprie vite. Ancora in un anno di gestione Chatrian, che da un lato chiama la giuria capitanata da M. Night Shyamalan a visionare un concorso che si muove fra Leonora addio di Paolo Taviani e Everything will be OK di Rithy Panh, il fassbinderiano Peter Von Kant di François Ozon e Avec amour et acharnement di Claire Denis, The Novelist’s Film di Hong Sangsoo e Un été comme ça di Denis Côté, e dall’altro fra il fuori concorso di Berlinale Special, Berlinale Special Gala e la sezione di linguaggio Encounters fornisce una prestigiosa vetrina per le nuove prime mondiali a nomi del calibro di Gastón Solnicki, Dario Argento, Lucrecia Martel, Quentin Dupieux, Andrew Dominik con il suo nuovo lavoro su Nick Cave dopo One more time with feeling, Bertrand Bonello e l’opera seconda di Alexander Zolotukhin dopo il folgorante A russian youth. E poi ancora Éric Baudelaire, James Benning, Travis Wilkerson, Alain Guiraudie, l’omaggio all’Orso alla carriera Isabelle Huppert, i classici, la retrospettiva. Basta avere voglia di girare per le sezioni, fra le ufficiali, Forum e Panorama, fra Generation e le varie espansioni: il grande cinema è qui, per una settimana di visioni, di schermi giganti che occupano intere pareti, di bassi che penetrano fino allo stomaco, di riflessioni, della consueta crescita personale. Ma soprattutto, questa volta, di riconquista, di (quasi) normalità, di vita. Quello che fa guardare al futuro con rinnovata fiducia, forse proprio la stessa dei fuochi d’artificio che da sempre, e anche in questa edizione, anticipano ogni proiezione. Sperando che l’anno prossimo – o magari già la primavera-estate di questo, perché no? – possa essere davvero quello “come prima”. Basta avere ancora un po’ di pazienza, si spera poca, e nel frattempo prendersi tutto quello che si può. In pochi, mascherati, in condizioni sempre più precarie, ma entusiasti di essere di nuovo qui.

Marco Romagna