Il Pardo a Locarno è molto più che un premio. È un’unicità irrinunciabile, è uno spirito d’appartenenza, è un segno distintivo che va ben oltre lo spazio chiuso delle sale. I lacci per gli accrediti sono rigorosamente leopardati, e rigorosamente leopardati sono pure gli ombrelloni, le tende da sole sui palazzi, le montature degli occhiali, le infradito, le biciclette, i fregi che ovunque, specialmente nei giorni del Festival, colorano la città. Leopardato è l’effetto reso dalle sedie gialle e nere poste di fronte ai colossali trecentottantaquattro metri quadri dello schermo che campeggia in Piazza Grande, e leopardate sono le locandine affisse più o meno per tutto il Canton Ticino, a ricordare ai cittadini svizzeri e ai tanti accreditati che accorrono da tutto il mondo che quest’anno l’amato Pardo, a pochi mesi dallo stesso traguardo festeggiato a Cannes nello scorso maggio, spegne 70 candeline. Una cifra tonda, una cifra da celebrare, magari restaurando il Cinema Rex e facendolo tornare attivo tutto l’anno, o magari inaugurando il nuovo Palazzo del Cinema, come a rimarcare ancora una volta, a quattro anni dal Settantesimo di Venezia fra buchi e sale drammaticamente inadeguate, la distanza abissale fra il sonnacchioso Belpaese e la macchina organizzativa e produttiva elvetica.
Per il suo settantesimo compleanno, il Pardo locarnese ha optato per un restyling minimale, il cui obiettivo dichiarato è quello di modernizzare la kermesse stando però ben attenti a non intaccarne lo spirito e la tradizione. “Festival del Film Locarno” è diventato semplicemente “Locarno Festival”, lo storico Auditorium FEVI ora si chiama Palaexpo, ma nel cambio dei nomi, per fortuna, non si nasconde alcun cambio nelle linee guida, rimaste intatte e granitiche nel loro spirito di ricerca e nel loro ambiente rilassato. L’unicità del Festival di Locarno, il motivo per il quale non abbiamo mai nascosto che sia il nostro Festival preferito, è il suo porsi sempre come una grande festa del cinema e dei suoi mille sguardi, fatta di occasioni d’incontro, fatta di abbattimento delle barriere, fatta di confronti e stimoli continui fra registi, pubblico, giornalisti e selezionatori. Si sta tutti insieme, a Locarno, ci si vede e ci si parla, con un respiro umano lontano anni luce da quei lustrini forzati, da quell’atmosfera blindata ai limiti del militare e da quello stress costante che finiscono per mozzare il fiato a Cannes, Venezia e, in misura leggermente minore, Berlino, attanagliando in una morsa asfittica chi, nei diversi ruoli, ne fa parte. A Locarno, invece, vige ancora la passione, vige il relax, vige la pura gioia dello scoprire film, autori, linguaggi, ma soprattutto esseri umani. Gli incontri con il pubblico sono all’aperto, sulla piazza, in mezzo ai tavoli, subito dopo le proiezioni dei film, e non è di certo raro imbattersi in ospiti e registi a passeggio o in altre sale, mescolati fra il pubblico, a esercitare il loro sacrosanto diritto di guardare. Già, guardare. Scoprire, capire, amare. Perché Locarno è un Festival di sguardo, di direzioni, di perle a volte inaspettate fra le opere prime e fra le cinematografie meno battute dagli altri Festival. È un Festival che ancora compie scelte coraggiose, cercando sempre nuovi modi di raccontare, di mostrare, di ragionare sull’immagine e sulle sue infinite vie. È un Festival che alle certezze, ai “nomi sicuri”, preferirà sempre l’originalità, l’urgenza politica e sociale, la necessità di esprimersi e di avere un minimo di visibilità per chi osa con il mezzo cinema.
Entrando nel vivo dei film da vedere, di fronte al nutrito elenco di titoli bisogna necessariamente andare per sezioni, alle quali generalmente diamo ben poca importanza – contano i film, non la loro categorizzazione festivaliera -, ma qui più che mai servono da guida per districarsi fra le molte e variegate lingue filmiche presentate. Innanzitutto ci sono le retrospettive, da sempre centrali a Locarno quanto snobbate da Cannes e Venezia che le hanno trasformate in una sorta di rassegna di restauri, e quest’anno quella principale – organizzata con mirabili sforzi da Roberto Turigliatto e Rinaldo Censi e che sarà replicata alla Cinématèque di Parigi in autunno – concerne il regista francese Jacques Tourneur del quale verrà proiettata, quasi tutta in 35mm, la personale completa, da Il bacio della pantera (1942) a I walked with a zombie (1943), passando per gli introvabili cortometraggi. E ci sono altre occasioni per (ri)scoprire le opere di grandi autori, tanto appartenenti al passato quanto al presente, da Jean-Marie Straub (del quale, tra i vari capolavori e cortometraggi, è messo in risalto Sicilia! (1999) che verrà proiettato in Piazza Grande) a Todd Haynes, del quale verrà riproiettato il cannense Wonderstruck, entrambi premiati col Pardo d’Onore Manor. Il rivedere oggi film come quelli di Tourneur e Straub, in maniera il più possibile vicina a come sono stati pensati, rappresenta senza dubbio una sfida allo spettatore, un riagganciarsi ad una possibile idea di cinema sempre più distante dalla percezione contemporanea. Nel caso del primo questo percorso (soprattutto il passaggio dall’essere autore prima in Francia e poi negli Stati Uniti) aiuta a comprendere a pieno la flagranza e la poliedricità di un regista decisivo per lo sviluppo del linguaggio e che la critica – da Lourcelles fino all’importantissimo libro di Chris Fujiwara – ha considerato come simbolo misterioso e spesso distante della modernità. Nel caso del secondo, invece, l’esigenza è sempre stata quella della ricostruzione continua di un percorso quasi opposto, di un rigore unico ma allo stesso modo fondamentale, nello straordinario studio e nell’indecifrabile ricostruzione del rapporto tra immagine e parola, tra l’esigenza del luogo e la struttura del tempo; un percorso portato avanti anche dall’anima e dal genio di Daniele Huillet, e che proprio con la sua dolorosissima assenza trova un’esigenza dialettica di rilettura.
In aggiunta, un omaggio all’attrice Nastassja Kinski con i film Cat People (1982) di Paul Schrader e Paris, Texas (1984) di Wim Wenders, e il Leopard Club Award ad Adrien Brody accompagnato da Il pianista (2002) di Roman Polanski e La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick. Scorrendo il programma, balzano poi agli occhi l’indispensabile tributo in memoria di George A. Romero con Zombi (1978), la possibilità di rivedere dopo la prima in Quinzaine all’ultima Cannes l’ultimo lavoro di Sharunas Bartas Frost, così come la nuova sezione istituita per festeggiare i 70 anni di Festival, intitolata semplicemente Locarno70, nella quale verranno proiettati alcuni film con cui autori ormai decisamente più che affermati hanno iniziato la propria carriera grazie alle proiezioni nel grande Festival di questa città del Canton Ticino: da Catherine Breillat a Chadi Abdel Salam, da Haneke a Ferreri, da Adolfas Mekas a Èric Rohmer, passando per Sokurov, appunto Haynes, Raul Ruiz (che è anche in concorso con La telenovela errante), Alina Marrazzi e Villi Hermann.
Per quanto riguarda il Concorso Internazionale, la cui giuria è capeggiata da Olivier Assayas, accompagnato da Miguel Gomes, Jean-Stéphane Bron, Christos V. Konstantakopoulos e Birgit Munichmayr, molti sono i nomi di autori in competizione che conosciamo e che probabilmente potrebbero soddisfare le aspettative: senza dubbio si attende Mrs. Fang di Wang Bing, un documentario su una donna con l’Alzheimer, così come è forte la curiosità nei confronti di Did you wonder who fired the gun? di Travis Wilkerson, regista che abbiamo imparato a stimare due anni fa con Machine gun or trypewriter? proprio qui a Locarno. Spiccano poi Good Luck di Ben Russell, già co-regista di Ben Rivers in A spell to ward off the darkness (2013) e autore di cinema documentaristico e etnografico, il succitato Raul Ruiz, Qing Ting zhi yan di Xu Bing e l’esordio alla regia dell’attore caratterista John Carroll Lynch con Lucky, con nel cast David Lynch (che non ha alcuna correlazione di parentela col regista) e Harry Dean Stanton protagonista. In Piazza Grande, la sezione più “pop” del Festival a rendere equilibrata e davvero “per tutti” la kermesse, verranno proiettati Atomic Blonde, spy-action di Leitch con Charlize Theron, Amori che non sanno stare al mondo di Francesca Comencini e Good Time di Benny e Josh Safdie, precedentemente passato a Cannes.
Ma Locarno, come si diceva, è soprattutto ricerca, scoperta di nuovi talenti, nuovo cinema per il futuro, ed è qui che subentrano il Concorso Cineasti del presente con giuria composta da Yousry Nasrallah, Matias Piñeiro, Katrin Pors, Johanna ter Steege e Paola Turci, la sezione Signs of Life – in cui è di sicuro febbrile l’attesa per il nuovo lavoro del rumeno Radu Jude – e la sezione Pardi di domani, la cui giuria è diretta da Sabine Azéma insieme a Yuri Ancarani, che era qui l’anno scorso con The Challenge: tutte sezioni in cui sarà, come sempre, giusto e interessante immergersi completamente, ed essere sorpresi da ciò che ancora non si conosce. Fuori concorso abbiamo Le Vénérable W. di Barbet Schroeder, precedentemente visto a Cannes, e un film di Godard poco conosciuto, risalente agli anni ’80 e di recente recuperato in una nuova forma impossibile da collocare se non nell’unica sezione che è una vera e propria non-sezione, Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma. Tutto in questo Festival può essere una scoperta, un innamoramento, uno sguardo in cui perdersi e comprendere un qualcosa che vada oltre la razionalità della comprensione di visione: ci si può trovare di fronte all’assoluto e non rendersene conto fino all’ultimo. Questo è il grande cinema, quello che anche quando delude rimane interessante, quello che è complesso e stratificato e pieno di sbocchi, quello che Locarno mette in mostra e in scena ogni anno diventando ogni volta, probabilmente, il Festival più bello del mondo.
Marco Romagna, Nicola Settis, Erik Negro