Claudia Cardinale svetta, in rosso, sulla facciata del Palais. Il turbinio del suo vestito, il passo slanciato, il sorriso: tutto è pronto, in rue de la Croisette, per la settantesima edizione del Festival di Cannes, ed è ancora una volta l’Italia, dopo le spalle di Monica Vitti nel 2009 e lo sguardo sornione di Marcello Mastroianni nel 2015, a prestare i suoi volti migliori al poster della manifestazione cinematografica più importante e ambita al mondo. È il Festival della Palma, è il Festival della grandeur, è il Festival del glamour, è il Festival della gran parata di star, è il Festival che presenta buona parte dei film che troveranno la sala nelle prossime stagioni, è il Festival delle proiezioni di gala per le quali trova una seconda vita il business del noleggio degli smoking, è il Festival nel quale le grandi case di produzione affittano interi alberghi e da lì ostentano la loro potenza, è il Festival nel quale, alle 8 e mezzo del mattino, è perfettamente normale incontrare intere fiumane di uomini e donne (già/ancora) in abito da sera alla ricerca disperata di un invito per le proiezioni serali. È il Festival dei lustrini, è il grande sogno, è l’élite: è l’Olimpo da scalare, anzi la scalinata, quella della sigla sulle note del Carnevale degli Animali di Saint-Saëns, quella che conduce alle sale del Palais. O forse quei pochi gradini che portano, sulla spiaggia, al mercato dei film, un mondo al di là del Festival, fatto di migliaia di titoli alla ricerca di una prima proiezione o di distribuzioni internazionali, fatto di selezionatori, programmatori, venditori, compratori, embarghi.
E poi c’è l’altra faccia di Cannes, quella delle file chilometriche sotto pioggia e sole senza la certezza di riuscire a entrare in sala, quella dello stress per il poco sonno e per la pressione da parte di un Festival che, essendo quello dalla maggiore portata, pretende un cospicuo riscontro mediatico, quella in cui il colore dell’accredito è una vera e propria classe sociale, quella in cui un sito italiano di critica e approfondimento come CineLapsus, per la sola “colpa” di essere giovane, merita per il secondo anno consecutivo un solo accredito dalla priorità d’accesso più bassa, costringendoci a fantasiosi e fortemente onerosi salti mortali pur di riuscire a presentarci comunque in tre, numero minimo per poter pensare di svolgere un lavoro approfondito. E poi c’è l’inevitabile faccia di una Francia ferita, già più volte colpita a Parigi e nella vicina Nizza: ci sono i continui controlli di sicurezza, le borse da aprire, i metal detector, i cestini come in aeroporto. Mentre la bottiglietta d’acqua, fondamentale compagna di ogni Festival, è qui classificata come materiale proibito e prontamente confiscata all’ingresso. Si mangia poco, a Cannes, e si beve di rado, costretti a centellinare. Ma poi si illuminano gli schermi, e non ci si pensa più.
Forse, conoscendo la grandeur cannense, dall’edizione numero Settanta, cifra tonda da festeggiare e per la quale gonfiare il petto, sarebbe stato lecito aspettarsi ancora di più. Certo, si tratta sempre del solito vuoto giochino: non ha senso parlare di film non ancora visti, e non è del resto nostra intenzione farlo, perfettamente consci che solo il buio della sala può emettere i propri verdetti. Ma è inevitabile, quando ci si ritrova a chiudere la valigia e partire per un nuovo Festival, scorrerne il programma, cercare i nomi dei registi che più si amano, cerchiare mentalmente le proiezioni da non saltare per alcun motivo, misurare la propria febbre per l’uno e per l’altro titolo. Cannes70 vuol dire una selezione ufficiale che, fra Concorso, Fuori competizione e Un Certain Regard, può già vantare, al netto di sorprese, autori del calibro di Arnaud Desplechin, Todd Haynes, Michael Haneke, Sergei Loznitsa, Kiyoshi Kurosawa, Naomi Kawase, Barbet Schroeder, François Ozon, Takashi Miike, un doppio Hong Sang-soo (uno in concorso e uno in proiezione speciale), Roman Polanski, Claude Lanzmann, Agnes Varda, Mathieu Amalric, Laurent Cantet, Noah Baumbach e Bong Joon-ho, oltre all’accordo con Showtime per avere le prime due puntate della nuova serie di Twin Peaks, ritorno alla regia di Sua Maestà David Lynch dopo il definitivo INLAND EMPIRE, e l’opera postuma, testamento in immagini di Abbas Kiarostami, 24Frames. Questo non è certo poco, ma siamo a Cannes, e a Cannes ci si aspetta sempre di più, ci si aspetta la perfezione, ci si aspetta quella lucentezza così fortemente ostentata, quella grandezza assoluta che il Festival in Costa Azzurra vuole incarnare.
E invece in concorso c’è anche Michel Hazanavicius, già “colpevole” di The Artist e che ora scomoda addirittura Jean-Luc Godard rimettendolo in scena durante le riprese de La cinese (1967), c’è anche Sofia Coppola, c’è anche Fatih Akin, c’è anche Yorgos Lanthimos, mentre frotte di Autori sublimi ma non particolarmente amati – tanto per usare un eufemismo – dal deus ex machina cannense Thierry Fremaux rendono ancora una volta grande la Quinzaine des Réalisateurs, pronta a schierare i nuovi lavori di Claire Denis, Philippe Garrel, Abel Ferrara, Amos Gitai, Sharunas Bartas e Bruno Dumont a fianco degli italiani Leonardo Di Costanzo, Jonas Carpignano e Roberto De Paolis. E se è vero che poco importa a noi, appassionati alla costante ricerca del film da amare ben prima che accreditati, in quale sezione verrà presentato un lavoro, è purtroppo innegabile che la visibilità generale di un film relegato al JW Marriott, storica sede della Quinzaine (poco) lontana dal Palais della selezione ufficiale, sia nettamente inferiore rispetto a quella che hanno i titoli “da tapis rouge” dai quali dovrà tirare fuori i propri verdetti la giuria – comprensiva di Paolo Sorrentino e Will Smith – capitanata da Pedro Almodóvar. Senza parlare di AciD, la sezione totalmente indipendente capace lo scorso anno di tirare fuori dal cilindro un assoluto capolavoro visto da pochissimi come La jeune fille sans mains, o della Semaine de la Critique che illumina gli schermi del Miramar: sezioni pressoché impossibili da seguire a meno di non possedere il dono dell’ubiquità. Perché i film sono tanti, a Cannes, forse troppi, e non molte sono le occasioni per vederli, ma questo è il destino di ogni grande Festival, obbligare a scelte dolorose, sovrapporre, offrire più di quanto sia possibile ricevere. Film nuovi, film attesi, film che andranno in sala e film che andranno direttamente su Netflix, pomo della discordia e polemica annuale in un mondo distributivo multiforme e cinefilo, quello francese, dal quale in Italia dovremmo imparare tanto. Cannes70 vuol dire film che passano solo al mercato, vuol dire una selezione imparagonabile a quella di ogni altro Festival, e vuol dire anche classici, che siano in proiezione notturna sulla spiaggia o restaurati e mostrati al pubblico nella loro migliore forma. Ci sarà L’Atalante (1934) di Jean Vigo, capolavoro fra i maggiori che il Cinema abbia mai prodotto e che torna in 35mm, ci sarà La ballata di Narayama (1983) nella versione di Shohei Imamura, ci sarà Ecco l’impero dei sensi (1976) di Nagisa Oshima, ci sarà Blow Up (1966) di Michelangelo Antonioni, ci sarà Il sole della mela cotogna (1992) di Victor Erice, ci sarà Bella di giorno (1967) di Luis Buñuel. E ci saranno anche Max Ophuls, Jean Rouch e Andrzej Wajda, perché Cannes vuole (sempre) dire, al di là degli aspetti più mediatici ma per noi tutto sommato marginali, grandi film, grandi autori, storia del cinema che, da settant’anni, sfila sulla Croisette. E sono questi film l’unico vero motivo per essere qui.
Nel frattempo, mentre noi ci perdiamo in questi discorsi vacui atti a sondare gli appetiti, sulla facciata del Palais una Claudia Cardinale più bella che mai continua a campeggiare, sorridere, agitare la gonna, ballare. Ci ricorda che è ora di aprire le danze, che nel sole della Costa Azzurra inizia il Festival di Cannes. Saranno due settimane di meraviglia?
Marco Romagna