Trecentottantaquattro metri quadri. Queste le imponenti dimensioni dello schermo che storicamente campeggia su Piazza Grande nei dodici giorni del Festival del Film di Locarno, giunto quest’anno alla sua sessantanovesima edizione, la quarta sotto la guida artistica di Carlo Chatrian e del suo staff. Trecentottantaquattro metri quadri, 24×16, di sogni, di illusioni, di storie, di linguaggi, di ricerca, di cinefilia e di selezione, quella vera, in grado di spaziare dal corto più sperimentale al film di genere mainstream, passando per i sempre fondamentali sguardi retrospettivi quest’anno incentrati sul cinema della Repubblica di Weimar. Sulle sponde elvetiche del Lago Maggiore, ogni agosto si verifica una sorta di miracolo: nell’ambiente splendidamente rilassato nel quale si mescolano allegramente cinefili, giornalisti e registi, un’intera città si tinge a macchia di leopardo, piazze e palestre diventano sale cinematografiche, orde di cinefili accorrono da tutta Europa e non solo per affollare le migliaia di sedie davanti agli schermi. Le conferenze stampa e gli incontri si svolgono in mezzo alla gente, sotto un semplice gazebo, magari con una birra in mano e senza che un paio di pantaloni corti possano essere considerati un’offesa, in un senso di appartenenza così lontano da quel glamour forzoso e spesso fuori luogo che rende blindate le varie Cannes, Venezia e Berlino. Locarno no, Locarno è diversa, Locarno è incontri, Locarno è passione genuina, Locarno è la consapevolezza che davanti a uno schermo siamo tutti uguali, senza filtri, senza barriere, senza distanze.
Dedicata ai sommi Abbas Kiarostami e Michael Cimino, quella che si prospetta nel 2016 è stata definita dallo stesso direttore artistico Carlo Chatrian “un’edizione giovane”, nella quale ai grandi nomi di chi a Locarno è da tempo affezionato, da Julio Bressane a Joao Pedro Rodrigues, passando per Anocha Suwichakonpong, Matias Pineiro, Joao Botelho e Franco Piavoli, il comitato di selezione ha affiancato un lavoro di ricerca forse ancor più certosino del solito, dando visibilità a molti autori giovani e piccole produzioni indipendenti. Il lavoro di ricerca locarnese ha una ben precisa direzione, una matrice perfettamente riconoscibile, una chiara volontà di cercare di capire quali direzioni potrà prendere il cinema nei prossimi anni: viene in mente in questo senso per contrasto la sezione Orizzonti di Venezia, solo pochi anni fa fra i fiori all’occhiello della kermesse lidense e ormai sezione senza più anima, ancora forte di qualche buon film ma in sostanza caotica, vuota, priva di reali percorsi e ispirazioni. Un problema che Locarno, con la conferma fino al 2017 dell’attuale direzione, non sembra doversi porre, in attesa che sia il buio in sala a dare le ulteriori conferme che ci si aspettano.
Ma non è solo il versante più “di nicchia” a interessare Locarno, da sempre festival poliedrico e attento a tutte le possibili direzioni prese dalla narrazione per immagini, comprese quelle dichiaratamente popolari. Se infatti in Piazza Grande verrà proiettato, fra gli altri, anche il nuovo Jason Bourne di Paul Greengrass, il Premio alla Carriera a Bill Pullman sarà occasione per rigustare il lynchano Strade Perdute, e quello per Howard Shore permette al Festival di riproporre Videodrome di Cronenberg e il Jonathan Demme de Il silenzio degli innocenti. Sarà inoltre possibile (ri)vedere il Ken Loach di I, Daniel Blake, fresca Palma d’oro a Cannes, o l’Alejandro Jodorowsky di Poesia sin fin, magari preceduto dagli altri capolavori dell’autore La danza de la realidad, La Montagna Sacra o Santa Sangre. Fra il Concorso Internazionale, il Concorso Cineasti del Presente, la sperimentazione pura di Signs of Life, le realtà cinematografiche esotiche quanto profondamente umane di Open Doors, i documentari della Semaine de la Critique e gli sguardi al passato per capire il presente offerti dal nugolo di retrospettive, da Histoires du Cinema agli omaggi agli ospiti, la sezione più originale è probabilmente quella dedicata ai film delle giurie, che permette di recuperare le opere dei vari autori che giorno dopo giorno vedremo spesso in sala, sul palco, per strada: dall’immenso Arturo Ripstein a Dario Argento, dai corti di Edgar Reitz a Ta’ang di Wang Bing. La grandezza di Locarno, in fondo, è proprio la sua varietà, la sua capacità di essere un festival della gente quanto di essere un festival di nicchia: ogni film, ogni giornata, ogni esperienza, ogni dialogo è come una distesa maculata di colori, e noi spettatori, noi cinefili, noi esseri umani non possiamo che seguire il Leopardo per le strade del Canton Ticino, come seguiamo le immagini, le sensazioni, le vite degli artisti e delle loro opere. E ogni volta perderci, con rinnovato e fanciullesco entusiasmo.
Marco Romagna