Dalla feroce sorte / il rifugio è poesia / dalla crudele amata / il rifugio è poesia / dalla palese tirannia / il rifugio è poesia * L’insonnia / in una notte di luna piena, / un inutile parlare tra sé e sé/ fino al mattino. * Un albero / carico di arance arancioni / in un cielo / color celeste. * A cosa serve / decantare la primavera / biasimare l’autunno / quando / uno se ne va / e l’altro ritorna. * Per qualcuno / la vetta / è terra di conquista / per la vetta / è terra di neve. * Non sono tornati / fiumi che scorrevano / verso il mare / soldati che andavano / in guerra / amici che partivano / verso terre lontane. * Oggi / è il frutto di ieri / domani / la conseguenza di oggi, / il frutto della vita / è la morte / e la morte / è fertile. * Vicini di casa / sui fili del bucato / hanno steso poesia, / in aprile. * Non reggo l’amore / non reggo l’ebbrezza del vino / sono abituato all’astinenza / la mia astinenza / sa di ubriachezza. * Senza angoscia / senza gioia / cammino / verso una direzione. * Lasciaci oltrepassare / la gioia e il dolore / Lasciaci oltrepassare / l’astio e l’affetto / Lasciaci oltrepassare / le parole dure e / quelle vane / le parole vuote dell’amore / Lasciaci oltrepassare.
tratto da Il vento e la foglia (Bád-o-barg), Abbas Kiarostami
Dell’osservare – “Una foto non può essere trasformata filosoficamente, essa è interamente gravata dalla contingenza di cui è l’involucro trasparente e leggero”. – Roland Barthes così scrisse ne La Camera Chiara, opera in cui veniva quasi sezionata l’osservazione, e la sua emancipazione, rispetto all’ossessione del reale. Prima della fotografia, però, esisteva la pittura. Un quadro, mille quadri, anzi solo ventiquattro. Come se fossero unicamente una mappatura del posto che incontriamo (e scontriamo) camminando per casa, come se fossero finestre da attraversare quasi inconsapevolmente per poter dipingere i nostri sogni, come se fossero l’unico spazio possibile dove può ancora esistere una logica dell’emozione rispetto a una logica della mente. In tutta la sua carriera Abbas Kiarostami ci ha continuamente invitati ad abitare lo spazio dei suoi film, nello stesso modo in cui i nostri pensieri giocano con il filo sottile di una memoria che man mano si sfoca. Nasce così l’idea che sia in un certo senso l’uomo a fabbricare immagini (proprio perché l’uomo è fatto a immagine, di qualcos’altro) prima rupestri e poi dipinte nella loro fissità, non essendo ancora in grado di scoprire quale potesse essere il loro movimento. Come se ci fosse un possibile tempo che potesse venire prima e dopo a quell’immagine, e allo stesso tempo potesse condensare i momenti della nostra vita in un caleidoscopio del divenire mentre continuiamo a guardare la stessa, medesima, immagine. Kiarostami nel suo ultimo (capo)lavoro, ospitato postumo all’ultimo Festival di Cannes, abbozza un dipinto della realtà, scomposta in ventiquattro frammenti che, nel restituirci il suo cinema, ce ne donano una riflesso profondissimo, in cui le immagini forse non mostrano più nulla, ma semplicemente si svelano al nostro sguardo attraverso leggerissimi meccanismi empatici ed emotivi appena accennati. 24 Frames è un regalo, un dono che da una parte si mostra come forse il più radicale tra gli ultimi film del mondo che sono giunti ai nostri occhi dagli anni dieci del nuovo secolo, e dall’altra come possibile punto di ripartenza sul senso dell’osservazione estatica (ed estetica) di una realtà da farsi cinema. Barthes pensava anche che le immagini (fotografiche) fossero un messaggio senza un codice, e il destino ha voluto che questo film fosse l’ultima possibilità (non finita e proprio per questo infinita) per Kiarostami di interrogarsi su quel codice, dell’osservare e dell’osservarsi.
Del guardare – “I always wonder to what extent the artist aims to depict the reality of a scene. Painters capture only one frame of reality and nothing before or after it. For the 24 Frames I decided to use the photos I had taken through the years. I included 4’30” of what I imagined might have taken place before or after each image that I had captured” (“Mi chiedo sempre fino a che punto l’artista intende rappresentare la realtà di una scena. I pittori catturano solo un frammento (o un fotogramma, ndr) di realtà e nulla prima o dopo di esso. Per 24 Frames ho deciso di usare foto che ho scattato attraverso gli anni. Ho incluso 4’30′” di ciò che ho immaginato potesse accadere prima o dopo ogni immagine che ho scattato”). – Proprio lo stesso Kiarostami si interroga(va) metafisicamente su come l’artista – il pittore in questo caso – cerchi di rappresentare la realtà estrapolandola dalla durata, in una personalissima opera di ricostruzione spaziale e temporale che dall’osservazione porta allo sguardo. Ciò che viene prima e ciò che viene dopo, esiste solo nell’atto di essere guardato? Dal Bruegel più lirico si va fino allo schermo di un pc, passando attraverso una Parigi cartonata come paesaggi invernali soffocati dalla neve, dove l’unico movimento risiede nel ciondolare assopito di flore e faune. Le fotografie sono lavorate, manipolate e ricostruite digitalmente in un senso straordinariamente originale, come se lo sguardo sul futuro non potesse non rispecchiarsi necessariamente alle origini. La natura è trasfigurata, non meno della realtà, e l’unica prova ontologica di un’esistenza riguarda ciò che non si vede, ovvero la presenza di un momento anteriore e posteriore a quello strappato al flusso che queste immagini purissime paiono continuamente attraversare. Come i ventiquattro fotogrammi che compongono ogni secondo del cinema, 24 Frames si compone di ventiquattro quadri continuamente incapsulati in altre strutture geometriche, che ne definiscono l’assetto come la profondità di campo (e il suo esserne eternamente fuori), che amplificano il senso dello sguardo e rendono flagranza a ciò che li compone. Sono ventiquattro fotogrammi senza fine, che pongono una riflessione filosofica semplicissima (ma allo stesso modo la più complessa) sul movimento come sul montaggio, sull’inquadratura come sull’azione, sull’analogico come sul “numerico”, sulla teoria come sulla pratica: sul cinema insomma. Lo sguardo prende così la stessa forma della fotografia, la ridiscute senza contemplarla, la interroga sul crinale labile che possiamo intravvedere tra l’apparizione e la visione. Una riflessione che si perde nella notte dei tempi del pre-cinema e che allo stesso tempo guarda ai Lumière come a Méliès, nella dialettica continua dell’animazione di una rappresentazione.
Del vedere – “Non importa quello che stai guardando, ma quello che riesci a vedere”. – Con questa frase, quasi ingenua nella sua vitalità, Thoreau ribalta il rapporto di ciò che possiamo percepire attraverso i nostri occhi. Teoricamente (e probabilmente) il vedere sarebbe l’atto compiuto dal senso della vista, il guardare risulterebbe il volgere lo sguardo verso qualcuno o qualcosa e l’osservare implicherebbe l’espressione di un’attenzione rispetto a ciò a cui ci troviamo di fronte. In questo film, così unico da risultare quasi inconcepibile, Kiarostami pare abbracciare quel senso trascendentalista, donando all’atto del vedere il senso ancora più profondo della creazione, declinando la passività in una nuova attività. Su questa soglia si muove l’esigenza di costruire un’immagine perennemente vitale e mai realmente finita, figlia di una percezione e madre di un nuovo pensiero. Come in tutto il suo cinema, in quell’immagine catturata e lasciata espressione più vera possibile della cariatide del tempo in un (non) movimento, emerge qualcosa che non è percepibile alla nostra osservazione e nemmeno al nostro sguardo. Ciò che è (dis)velato diventa ciò che non abbiamo di fronte ai nostri occhi, ciò che non può essere fissato su nessun supporto ma che invece va creato, immaginato, sognato come atto in potenza che respira del proprio divenire perenne (e che ne trova la coscienza nel momento in cui viene incapsulato in un simulacro che alla sostanza preferisce la forma). Le animazioni sono necessariamente “finte”, digitali e spixelate, perché è proprio qui che sta la loro realtà di immaginazione, è proprio nello svelarsi dei dispositivi che sta il cuore della riflessione dell’Autore. Ed è ancora più folle e drammatico pensare come il destino abbia donato a quest’opera l’onere di essere il testamento linguistico e spirituale di una delle più fondamentali figure/esperienze filmiche della modernità. Non ci resta che aprire gli occhi e il cuore liberandoci da qualsiasi pregiudizio senza pensare a osservare, senza restare a guardare, per tentare di vedere ciò che ora ci può sembrare invisibile. I cervi cadono abbattuti dall’unico sparo, le foglie sembrano quasi ballare sui “ti voglio bene assai” di Caruso, infinita e di potenza quasi insostenibile sembra la progressione emotiva dell’ultima parte, fino al finale in cui rientra l’uomo, e da uomo al contempo ama e muore. Rimane l’ultimo fotogramma. Un programma di montaggio aperto, un bacio da sezionare, una bella addormentata davanti allo schermo. Qualcosa che oltrepassa l’immagine nel tempo come nel suo stesso movimento, qualcosa che sopravvive alla propria stessa morte – dell’opera come dell’Autore (godardianamente parlando, e non solo) -, nella purezza evocativa propria delle arti, nella loro estranea istantaneità di una necessaria narrazione che possa ancora guardare il mondo. Bastano ventiquattro fotogrammi per segnare il baratro tra l’esserci e l’esserci stato, lo scomparire e il rivivere infinitamente, l’eclisse di un immagine e la luce di un altra. 24 Frames è un’esperienza totalizzante, che aspetta la vita e allo stesso modo la vuole inseguire, perché consapevole del momento e del miracolo di essa, qui ed ora. Lentissima compare la scritta “The End”. Ma non preoccupiamoci, non c’è nessuna fretta oramai, tutte le storie sono sempre state una storia sola. La nostra, di tutti noi.
Erik Negro