2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968), di Stanley Kubrick
Avvicinarsi a 2001: Odissea nello spazio è ogni volta come sfiorare con la punta delle dita un misterioso monolito nero, liscio, inscalfibile, specchio oppure schermo, energia oppure evoluzione, oggetto alieno oppure segno divino, superficie dell’imponderabile oppure intelligenza purissima. È un contatto visivo e fisico con il quale ogni volta crescere, dal quale ogni volta apprendere, dal quale ogni volta progredire, proprio come progredirono i primati dai quali discendiamo, proprio come progredisce la scienza al momento della nuova apparizione sulla luna, proprio come progredirà l’essere umano destinato a invecchiare, a morire e a rinascere in una nuova forma, feto di uno step evolutivo successivo con lo sguardo verso la Terra e poi proteso verso il futuro mentre, nella più lampante delle allegorie dell’Oltreuomo nietzschiano, esplode lo Strauss di Così parlò Zarathustra. Sono passati 50 anni dalla prima proiezione del capolavoro fra i capolavori di Stanley Kubrick, e quel 2001 del titolo, da futuro che sembrava lontanissimo, è diventato un ricordo lontano, quasi sbiadito. Nel frattempo l’uomo non ha ancora istituito i viaggi intergalattici come abitudine e le stazioni orbitanti come sostanziali autogrill, la critica cinematografica ha già avuto modo di produrre qualsiasi possibile lettura di 2001: Odissea nello spazio ergendolo a film fra i più famosi di sempre e senza dubbio, nel suo intrecciarsi di allegorie e nelle sue volute ambiguità dalla (quasi) libera interpretazione, fra i più stratificati e “difficili”, e il cinema è cambiato forse per sempre con la sostanziale rivoluzione del digitale, che ha tolto parte di quella fisicità, appunto, monolitica, che la pellicola e la luce intrappolata e restituita dal suo scorrere porta(va)no in dote. Ma a 2001: Odissea nello spazio, girato e concepito in Super Panavision 70mm, orgogliosamente analogico, profondamente “vero” ben al di là del realismo, questa fisicità non si può e non si deve togliere, sarebbe un puro sacrilegio, sarebbe come privarlo della sua stessa essenza, quella dell’assoluto realismo fisico dei set costruiti non da scenografi ma da ingegneri aerospaziali, quella della fisicità del monolito che il film mette in scena e rappresenta. Tocca a Christopher Nolan, che insieme a Quentin Tarantino e più ancora di Paul Thomas Anderson della pellicola è il principale paladino dei giorni nostri, l’onore di sbarcare sulla Croisette di Cannes per presentare la proiezione di gala, ovviamente in 70mm, della ristampa (non ancora) restaurata analogicamente dal negativo originale per festeggiare il mezzo secolo del film. L’idea del restauro è quella di “restituire le emozioni delle prime proiezioni”, ma è proprio in questo senso che, va detto, il progetto non convince fino in fondo, squisitamente filologico nella scelta di non eliminare le righe e le imperfezioni, ma che lascia dall’altra parte qualche sospetto di ritocco fotografico nolaniano nel suo annunciato viraggio dell’intera palette di colori verso tonalità più (troppo?) giallastre. Si dice fosse questo, più caldo, l’effetto cromatico voluto dal regista, ma la copia positiva personale 70mm – e ancora apparentemente perfetta – di Stanley Kubrick donata al BFI alla sua morte e proiettata qualche anno fa a Bologna, in Piazza Maggiore durante il Cinema Ritrovato, presenta un Metrocolor ben diverso dalla colorazione presentata a Cannes e su cui si baserà il restauro, molto più “bianco” e contrastato, in sostanza sulla stessa scala cromatica dei restauri precedenti a questo da cui sono state estrapolate le edizioni blu-ray del 2007. E non sappiamo quale sarà la tinta con cui il film troverà, dal prossimo 3 giugno, la sua nuova distribuzione italiana. Una distribuzione che sarà digitale, con la quale il film perderà parte della sua fisicità, ma ci si accontenta volentieri, perché l’esperienza di 2001: Odissea nello spazio al cinema è più che mai imparagonabile a qualsiasi altro metodo di visione, è un momento formativo e multisensoriale, è un immergersi in costanti stimoli audiovisivi che solo il grande schermo può restituire, ben al di là degli snodi di trama, e forse anche ben al di là dei messaggi, delle metafore e delle suggestioni che Kubrick mette in scena nella sua più conclamata pietra miliare, nel film che, centinaia di volte citato e ridiscusso, per stile e per riprese nello Spazio ha cambiato per sempre la storia della celluloide.
Basterebbe il nero assoluto, scuro come la superficie del monolito, che immerge nel primo e poi nel secondo tempo passando da qualche minuto di totale buio, il noise in sottofondo come rumore della creazione, dell’infinito, della paura, i sensi stimolati come una scarica elettrica, come un soffio di vita, come la nascita e la crescita dell’universo, dell’intelligenza, della specie. È L’alba dell’uomo, è il deserto di Pangea, spazio enorme e indefinito, pianeggiante, bloccato nel tempo delle ere geologiche. E soprattutto caldo, drammaticamente caldo. La lotta fra le tribù dei nostri antenati è per uno specchio d’acqua, combattere per vincere la sete, per poter vivere nel territorio. Basta una congiunzione astrale, una simmetria, una linea di corpi celesti dal punto di fuga centrale, ed ecco che appare il monolito, con il suo ribaltare tempo e spazio, con il suo creare ogni volta una nuova umanità più evoluta, più capace, più intelligente. Basta sfiorarlo, basta assorbirne gli influssi, e magicamente uno scheletro diventa un’arma – l’evoluzione umana, del resto, è spesso vicina alla violenza e alla volontà di dominio, specialmente durante la corsa allo Spazio della Guerra Fredda. Poi, il salto di milioni di anni nel tempo e nello spazio in un solo geniale e celeberrimo stacco di montaggio, dall’osso con cui le scimmie imparano a uccidere all’astronave che, nel 2001, porterà sulla luna dove il monolito è stato ritrovato fra assoluta segretezza e false voci d’epidemie per allontanare i sospetti da una scoperta scientifica così sconvolgente e misteriosa. Dall’indefinitezza del tempo in uno spazio ampio ma terracqueo, messo in scena da Kubrick con le retroproiezioni su specchi con le quali, sostengono i maligni, l’anno successivo verrà costretto a girare in studio il video dell’allunaggio di Neil Armstrong che, vero o falso che sia, consegnerà in sostanza agli Stati Uniti la vittoria “cosmica” sull’URSS, si passa a un anno preciso e agli spazi tutto sommato ristretti di una navicella spaziale, ma gli orizzonti inevitabilmente si allargano, guardano al cielo e al sistema solare, a sua volta un puntino nei meandri di galassie. Nello Spazio profondo, coerentemente, non c’è atmosfera e non si propaga alcun tipo di suono, solo l’evidentemente extradiegetico Sul bel Danubio blu può accompagnare la sostanziale danza dell’astronave, che abbia o meno la duplice valenza di bomba che qualcuno, probabilmente con ancora Il dottor Stranamore negli occhi, volle leggere al tempo. Di sicuro, non tanto nella navicella iniziale quanto in quella che, in seguito all’assordante segnale radio inviato dal monolito illuminato dal sole, partirà verso (l’uovo) Giove con l’evidente forma di uno spermatozoo, sta parte delle allegorie del film. Attraverso i tunnel psichedelici e gli arredamenti settecenteschi e illuministi nei quali incontrare per ben due volte il monolito, lo Zarahustra di Nietzsche potrà finalmente rinascere Übermensch guardando l’infinito, come se tutta l‘Odissea nient’altro fosse che la lotta contro per la sopravvivenza che sta in ogni nuova nascita. L’umanità è una sorta di instabile anello di congiunzione fra i primati e il prossimo stadio evolutivo, e non certo per caso l’uomo e la macchina finiranno per coincidere, sovrapporsi ed entrare in conflitto, con l’intelligenza artificiale di HAL 9000 che, anche nell’errore e nell’orrore, si dimostrerà sempre più umana mentre l’uomo recederà sempre più a macchina, meccanico e addestrato, ma ormai privo di reali emozioni anche di fronte ai video di famiglia. Fino al momento in cui l’uomo sarà costretto a disattivare la macchina facendola regredire all’infanzia, come un Ulisse che, nel bel mezzo della sua Odissea, acceca l’unico occhio del Ciclope. L’occhio rosso di HAL, quello programmato per non sbagliare mai, quello programmato per lasciare vincere apposta qualche partita di scacchi all’equipaggio, quello che ha in mano il totale controllo della missione, quello che sa leggere il labiale, quello di cui più volte e con intenti sempre più inquietanti verranno messe in scena le soggettive in leggero fish-eye, e che finirà per impazzire per gli ordini discordanti ricevuti. Da una parte è programmato per essere affidabile e amichevole, come un membro aggiunto dell’equipaggio, dall’altra gli viene chiesto apertamente di mentire, o meglio di omettere i reali motivi della missione, a chi è in viaggio con lui verso Giove. Ed è proprio nel momento in cui viene fuori la sua indecisione fra le due priorità che subentra l’errore, che l’avaria inesistente emerge dai nodi della menzogna, che inizia la rottura del rapporto di fiducia. Insieme alla “necessità” degli omicidi per una macchina che, umanamente, va in paranoia e sbaglia, sempre più tragicamente. Fino alle vecchie filastrocche che riaffiorano mentre la sua memoria, inesorabilmente, svanisce.
Nel romanzo di Arthur Clarke, sviluppato parallelamente alla scrittura del film e pubblicato poco dopo l’uscita, sono molte meno le libere interpretazioni lasciate al lettore. Stanley Kubrick, al contrario, ha sempre preferito lavorare sull’evasività del suo capolavoro, sulla sua complessità, sulla sua forza criptica, lasciando libero spazio alle interpretazioni (e non di rado speculazioni) filosofiche e allegoriche del pubblico ed eludendo o quasi qualsiasi domanda contenutistica giuntagli nel corso degli anni. Perché prima di tutto è e deve essere un viaggio mistico, 2001: Odissea nello spazio. Non solo per il tunnel psichedelico (porta spazio-temporale o visione poco importa), che si apre alle porte della percezione di Huxley che diventano Giove (e oltre l’infinito), con il quale, in un film per il resto totalmente atemporale, deflagra orgoglioso il ’68, non solo per la possibile valenza divina del monolito, non solo perché l’ormai moribondo Bowman allunga michelangiolescamente il dito per avvicinarsi alla nuova creazione. Quello concepito e messo in scena da Kubrick è un viaggio che è puramente mistico per il mistero, o meglio per i misteri, insondabili e ancestrali, che esprime. 2001 è il mistero della vita, è il mistero dell’universo, è il mistero della creazione, è il mistero della scienza, è il mistero del viaggio, è il mistero del tempo. È il mistero della filosofia, è il mistero della sapienza, è il mistero dei rapporti umani, della paura, della gelosia, della psicosi. È il mistero che ci porta a pensare di non essere l’unica forma di vita intelligente nell’universo, ma che anzi ci porta direttamente al monolito, manufatto alieno dal quale assorbiamo energia, sapienza, intelligenza, evoluzione, cinema. Ed è anche il mistero di un’ambiguità costante, nella quale nessuno è davvero mostro – nemmeno HAL, pur plasmato fra il Ciclope di Omero e il Frankestein che sfugge al controllo del suo creatore – e nella quale nessuno è davvero vittima, ma tutti, uomini e macchine, coscienti e ibernati, sono in un certo senso pedine dello stesso destino al quale assistere impotenti ma speranzosi, nel rollio programmato di un Discovery One che ricrea la gravità laddove non esiste così come nella stanza vittoriana di un set nel quale il tempo è ormai una mera ipotesi, l’ultima attesa del feto e del fato. Leggendari sono in tal senso gli effetti speciali ideati e realizzati da Kubrick, alternati con precisione millimetrica fra il vorticoso ruotare dell’ambiente e quello della macchina da presa, perfettamente equilibrati nelle simmetrie e nei colori, e rigorosamente basati su assoluta veridicità scientifica – anche la sequenza nella quale Bowman rientrerà a forza nella navicella letteralmente sparandosi in un portello di emergenza, fatta di mancanza d’aria e di forza di gravità fino a quando l’astronauta non riuscirà pericolosamente a richiudere il portellone, è perfettamente plausibile, almeno per quello che si sapeva sullo spazio all’epoca. Come del resto, al di là della simbologia del monolito e dell’intreccio di allegorie e riferimenti culturali, è perfettamente plausibile l’idea alla base che, nella vastità dell’universo, esistano altre forme di vita intelligenti oltre alla nostra, ed è pienamente ragionevole pensare che qualcuna sia migliaia, o forse milioni, di anni avanti rispetto a noi. E forse non è un caso che tutte le religioni, da qualsiasi cultura e parte del mondo provengano, prima o poi finiscano per guardare verso il cielo, per parlare di messia venuto dall’alto, per scrutare verso il sole che spunta dal monolito, e che ne fa brillare le linee perfettamente definite, portandolo a riflettere ancor di più la sua stessa inscalfibilità. Serve solo avvicinarsi, come le scimmie verso l’oggetto sconosciuto o come l’uomo verso lo Spazio, senza paura di imparare, senza paura di crescere, senza paura di evolversi. Anche se questo volesse dire distruggere e distruggersi, invecchiare e morire, unico modo per poter rinascere. In attesa che risuoni ancora una volta Così parlo Zarathustra nella volta celeste, dalle ossa delle scimmie allo sguardo del prossimo uomo, a mettere fine alla nostra sospensione, alla nostra necessità di fare un ulteriore passo evolutivo, o forse a ripartire daccapo nella provvisorietà, in attesa che sia ancora un altro il gradino da fare verso la vera sapienza, verso la vera civilizzazione, verso la vera (oltre)umanità. Per i prossimi milioni di anni, che poi, nelle ere dell’universo, nient’altro sono che il tempo di un osso lanciato verso l’alto e ripreso al volo.
Marco Romagna