12 JOURS (2017), di Raymond Depardon
L’uomo è la più infelice e la più fragile fra tutte le creature, e nello stesso tempo la più orgogliosa.
Michael Focault
La storia del documentario è piena di esperienze immersive, in realtà urgenti e complesse, in cui esercitare un diritto d’indagine, e anche per questo motivo spesso ci siamo trovati con il nostro sguardo immerso all’interno di spazi reclusivi dedicati a trattamenti sanitari obbligatori di tipo psichiatrico. Se Frederick Wiseman (Titicut Follies) si abbandona all’osservazione espansa della realtà di questa cattività terapeutica così da interpretare l’individuo tra microcosmo e struttura, e Wang Bing (Feng Ai) si sofferma maggiormente sulla stessa possibilità d’esistenza dei pazienti e delle loro relazioni anche esterne rispetto al percorso di cura, Raymond Depardon nel suo ultimo documentario 12 Jours, presentato a Cannes70 fra le proiezioni speciali, si interroga invece su uno spazio estremamente più limitato e circoscritto. In Francia, in questo caso nei pressi di Lione, passano esattamente dodici giorni dal momento della reclusione forzata al giorno in cui il giudice deve confermare o meno l’ordine restrittivo. Proprio in questo luogo dove viene esercitata la discrezione dell’autorità, si costruisce questo documentario, rigoroso e umanissimo, che indaga anche trasversalmente il concetto di volontà e di libero arbitrio. Un caso alla volta, un quadro alla volta, nel rapporto che si crea tra giudicante e giudicato è la ragione stessa ad essere indagata nel senso più stretto di storie che raccontano il disagio dello stare qui, e che allo stesso modo cercano una possibile via d’uscita.
Ovviamente in tutti di tutti i casi esaminati (proprio perché già ciò pare essere una prima discriminazione, l’essere trattato come caso come se l’entità umana fosse meramente ridotta al comportamento ed all’azione) nessuno sarà dichiarato di “reclusione illegittima”, e quindi tutti saranno costretti a rimanere nella struttura in attesa di un nuovo giudizio. Da questa triste verità pare iniziare la reale riflessione del Depardon uomo prima che autore, ovvero su come la società (e in questo caso l’istituzione) prenda realmente in considerazione quale possa essere il bene e la reale possibilità di reinserimento per il paziente, allo stesso piano rispetto a quanto lo stesso paziente potrebbe rischiare di creare condizioni problematiche per la collettività. Tra casi più estremi, ed estremamente delicati, e altri più legati a stati lievi di esaurimento o ansia, viene da chiedersi come si possa realmente giudicare questo giudizio in senso etico, ovvero tentare di limitare (con l’esperienza sensibile degli interrogatori) lo spazio di azione della legge al cospetto della medicina da una parte, e delle libertà personali dall’altra. Di tutto questo discorso resta proprio da chiedersi quanto il malato possa sentirsi libero in un’esperienza manicomiale di questo tipo, in cui il processo di disalienazione dalla malattia passa per forza attraverso un’altra forma di alienazione (di cui il potere e l’istituzioni sono i soggetti) e di dipendenza concreta.
Depardon, grande autore di reportage anche giornalistici dapprima fotografici e poi filmati (tra tutti Reporters, Urgences, Délits flagrants e l’ultimo Journal de France) gira un film estremamente rispettoso, apparentemente freddo, ma straordinariamente lucido in cui cerca di applicare lo stesso metodo scientifico del giudizio di un’immagine nei confronti della situazione qui descritta. L’occhio dell’autore si fonde (ma non si nasconde) con quello della macchina, giusto a metà tra paziente e giudice, sempre di poco dietro all’azione; al cospetto dello sguardo (anche di quelli in macchina) è la legge stessa, lo spazio politico e filosofico in cui può essere esercitata a scapito della dignità e dei diritti fondamentali. Nel dialogo dei piani e dei campi il nostro sguardo cerca solo il loro, come se la parola a un certo punto diventasse quasi un commento o una discriminante non necessaria per farci percepire le loro necessità e desideri da una parte, la loro applicazione di regolamentazioni e il severo rispetto di essi dall’altra. Tra un incontro e l’altro scorrono riprese fisse dei luoghi di detenzione, una mappatura gelida e silenziosa di uno spazio da considerarsi oramai unicamente come simbolo di doveri verso la società e affermazione del miserabile. Rimane il tempo di sospensione di un giudizio, “un effetto del disordine e un ostacolo all’ordine”, in cui sono le stesse anime a chiedersi se davvero un giorno avranno la possibilità di creare dialettiche e rapporti esterni, e se davvero saranno in grado di svilupparli. L’apertura è dedicata a Focault, la musica di Desplat e il sentimento che si prova nel guardarlo fa tornare alla mente il Rossellini di Europa ’51 (il Test di Rorsarch, il collimare con la morale del tempo, il giudizio di una comunità), quando Basaglia era ancora un’utopia e non esisteva consapevolezza umana e sociale rispetto a questi problemi, risolti unicamente con la repressione e la punizione. E così anche un film può cercare di dare un segno, attraverso quel cinema in cui ogni movimento di macchina è una presa di coscienza morale, e allo stesso modo ogni frammento di coscienza morale esige e rivendica la sua possibilità di essere, proprio come un movimento di macchina. Al di là del dolore e della solitudine, della disperazione e della malattia, della fragilità e dell’orgoglio, ci sarà sempre l’umanità. Vero?
Erik Negro